
Un olocausto nucleare. Così un articolo apparso nel 2019 sul «Bulletin of Atomic Scientists», la rivista fondata ottanta anni fa da Albert Einstein, immaginava l'epilogo di una guerra tra India e Pakistan scatenata - proprio nel 2025 - da un attacco terroristico al Parlamento di Nuova Delhi. Fin qui la profezia, o la previsione scientifica, chiamatela come preferite, non si è ancora pienamente avverata. Le premesse però ci son tutte. L'operazione Sindoor, con cui l'India ha risposto alla strage messa a segno il 26 aprile nel Kashmir indiano da una formazione fondamentalista basata in Pakistan, è una delle più dure rappresaglie condotte dalle forze armate di Nuova Delhi. L'aviazione e i missili indiani hanno centrato obbiettivi a oltre cento chilometri dal confine. Ben aldilà cioè dei territori del Kashmir sotto controllo pakistano dove solitamente si concentrava la rappresaglia. Una risposta d'intensità simile, insomma, all'avanzata indiana nel Punjab pakistano, che nello scenario del «Bulletin of Atomic Scientists» spinge Islamabad a far deflagrare 10 ordigni nucleari tattici da 5 kilotoni ciascuno. Quanto basta per innescare un'escalation che in sei giorni porta al lancio reciproco di centinaia di testate atomiche, causando la distruzione delle principali città indiane e pakistane e oltre cento milioni di vittime.
Quel che accomuna realtà ed immaginario scientifico sono gli arsenali nucleari dei due paesi. Secondo le stime del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) l'India possiede oggi 172 testate atomiche contro le 170 del Pakistan. Quanto basta per cancellare città e installazioni militari di entrambi i Paesi e decimarne le popolazioni. A rendere tremendamente verosimile la profezia s'aggiunge la crescente instabilità internazionale contrassegnata, nell'Indo Pacifico, dalla sempre più marcata contrapposizione tra Stati Uniti e Cina. Una contrapposizione che contribuisce a radicalizzare le posizioni di India e Pakistan divise, sin dal 1948, dallo scontro per il controllo della regione del Kashmir, per cui i due paesi hanno già combattuto tre guerre.
L'India guidata dal leader ultra nazionalista Narendra Modi si è trasformata, nell'ultimo decennio, nel principale e indiscusso alleato degli Stati Uniti. Il Pakistan è invece uscito dall'area d'influenza di Washington. La marginalizzazione iniziata nel 2021 con il ritiro americano dall'Afghanistan si è accentuata all'inizio dell'amministrazione Trump. Un amministrazione che - nonostante la presenza a Nuova Delhi del numero due JD Vance durante l'attentato del 26 aprile scorso - ha fatto assai poco per convincere gli alleati indiani a moderare la rappresaglia. Ma al disimpegno americano, da un Paese dove la destabilizzazione figlia del terrore islamista è accompagnata da una devastante crisi economica, s'aggiunge la crescente dipendenza da Pechino. Una dipendenza che né il presidente Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, né il primo ministro Shehbaz Sharif né i generali, veri gestori del potere, fanno nulla per ridimensionare. Proprio la latitanza di un'America che in passato ha gestito da dietro le quinte le innumerevoli crisi esplose tra i due Paesi fa temere un escalation fuori controllo.
Il vuoto diplomatico lasciato in Pakistan dall'America di Trump potrebbe però venir riempito da un Dragone che in questo momento non ha alcun interesse a ritrovarsi coinvolto in un conflitto a fianco del Pakistan sul fronte occidentale dell'Indo Pacifico. Anche perché lo scontro costringerebbe Pechino a distrarre risorse dal suo principale obbiettivo politico e strategico ovvero l'annessione di Taiwan.
Proprio per questo molti osservatori confidano che il principale asse del dialogo per disinnescare l'escalation si sposti sull'asse Pechino Washington. Con la Cina impegnata a frenare i generali di Islamabad e l'America a contenere la furia nazionalista dell'alleato Modi.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.