«Majorana scappò in Venezuela» Inchiesta chiusa, giallo riaperto

La Procura di Roma archivia il caso, ma scrive nero su bianco che il fisico sparito nel 1938 era in Sudamerica tra il '55 e il '59

«Majorana scappò in Venezuela» Inchiesta chiusa, giallo riaperto

Il giallo è risolto, il mistero si fa ancora più insondabile. Ettore Majorana non si suicidò e non fu ucciso, No, nel 1955, 17 anni dopo la sua enigmatica scomparsa, era vivo. Ed era in Venezuela. Poi del celebre fisico, una delle menti più geniali della mitica scuola di via Panisperna, si perdono definitivamente le tracce. Qualcosa però la Procura di Roma ha trovato: una foto che mostra una somiglianza sbalorditiva con lo scienziato, la testimonianza di un immigrato scomparso di recente. Tasselli di un rebus in cerca di soluzione dal lontanissimo 26 marzo 1938, quando Majorana s'imbarca a Palermo sul «postale» per Napoli e svanisce nel nulla. Forse è caduto in mare, per un disgraziato incidente, oppure si è gettato volontariamente in acqua, o ancora ha predisposto in maniera accurata la sua fuga dal mondo e non è affogato ma è andato a chiudersi in un convento. Oppure, altra ipotesi, qualcuno l'ha fatto fuori. Tutte teorie che ora paiono naufragare davanti alle conclusioni cui è giunto il procuratore aggiunto della capitale Pierfilippo Laviani: la sparizione di Majorana non fu il frutto di un disegno criminale, anche perchè il presunto morto era vivo e vegeto molto tempo dopo. Dunque, tecnicamente, il fascicolo aperto nel 2011 può serenamente andare verso l'archiviazione.

Certo al lettore normale, dotato di buonsenso, può apparire a dir poco sconcertante che la procura si sia messa sulle tracce del grande desaparecido, risucchiando un appassionante capitolo della storia patria nei faldoni della cronaca giudiziaria. Pare incredibile e in effetti lo è, anche se un appiglio formale cui attaccarsi i pm lo trovano sempre. Nel nostro Paese è l'autorità in toga a dirimere il più delle volte contese etiche, sono sempre i giudici a ad affrontare temi sociali e ad intervenire dove altre authority non hanno battuto un colpo. I magistrati anche se lo negano – spesso fanno politica e spostano con le loro mosse gli equilibri del Palazzo. Insomma, i giudici occupano tanti, troppi spazi dentro la società, anche per la debolezza di altri soggetti. E siamo pure abituati, in un Paese in cui non ci facciamo mancare niente, alle indagini formato saga, con puntate successive, colpi di scena, assoluzioni che rotolano rumorose su precedenti condanne, misteri che s'ingarbugliano neo tempo, come i tanti episodi irrisolti della cronaca nera. Ma il pm che ruba il mestiere allo storico ancora non l'avevamo visto. Ora eccoci accontentati.

Dunque, dobbiamo saltare nel tempo e nello spazio per afferrare il filo ritrovato dagli investigatori della capitale. Dobbiamo passare dalla primavera del 1938 al 1955, dobbiamo lasciare le acque del Tirreno e dirigerci in Venezuela. A Valencia. Qui viene scattata la foto che dovrebbe svelare il rebus e creare un altro rompicapo: nell'immagine si vedono due persone. Uno sii fa chiamare Bini e con ragionevole certezza, secondo Laviani, è proprio Majorana. Al suo fianco, un altro emigrato italiano: Francesco Fasani, di professione meccanico. I carabinieri del Ris, gli stessi che hanno setacciato la casa di Cogne e il prato in cui è stata trovata Yara, hanno studiato a fondo quelle facce. Hanno fatto controlli e comparazioni e hanno emesso il verdetto: Bini è Majorana. I due sono compatibili che più compatibili non si può: fronte, naso, zigomi, mento, orecchio. Tutto torna. Tutto coincide. Tutto si sovrappone fino a fondersi. È lui. Non ci sono, almeno a Palazzo di giustizia, dubbi. L'arcano è svelato. E c'è pure una sorta di prova logica. A suo tempo Fasani, ascoltato prima di morire, trova nell'auto di Bini una lettera spedita da Quirino Majorana, zio di Ettore e fisico pure lui di prima grandezza, ad un collega americano, W.G. Conklin. La missiva è del 1920, ma la data non conta, vale il possesso. Poi, il caso torna nella nebbia. Il Venezuela non ha aiutato l'inchiesta più postuma della nostra storia e pure la procura capitolina ha dovuto arrendersi.

Consegnandoci comunque un finale che rillancia l'intuizione di Leonardo Sciascia: forse Majorana, spaventato dalle sue scoperte sull'atomo, decise di «uccidere» la propria identità per salvare il mondo dalla catastrofe nucleare.

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