«Aaa Quisling cercasi disperatamente». Il Cremlino non lo dice, ma la mancanza, è chiaro, si fa sentire. E proprio l'assenza di un «quisling», o meglio di un leader filo-russo da insediare a Kiev potrebbe spingere Mosca a considerare il compromesso proposto martedì da Volodymyr Zelensky. Un compromesso che prevede la rinuncia di Kiev all'entrata nella Nato oltre al riconoscimento della sovranità russa sulla Crimea e dell'indipendenza delle repubbliche filorusse del Donbass.
Ma andiamo con ordine. Dai tempi della seconda guerra mondiale, quando guidò per conto dei nazisti una Norvegia occupata, il nome di Vidkun Quisling indica la disponibilità a governare per conto di una potenza straniera. Ma quello del norvegese non è certo un caso unico. Ogni operazione militare in terra straniera ha bisogno di un «quisling». In Afghanistan nel 2001 gli americani usarono l'Alleanza del Nord contro i talebani. In Libia, nel 2011, il Comitato Nazionale di Transizione di Bengasi fu il riferimento della Nato contro Gheddafi. In Siria l'alleato di un Occidente, deciso a far cadere Bashar Assad fu l'Esercito libero siriano. Ma la pratica dei «quisling» non è certo sconosciuta a Mosca. Nel 1968 l'invasione sovietica della Cecoslovacchia fu preceduta dalla fittizia richiesta d'intervento dei presunti avversari interni del riformatore Alexander Dubcek. Con questi precedenti ci si chiede dunque come mai, Mosca non tiri fuori dal cilindro il nome di un leader politico pronto a rappresentare quel 30 per cento di russofoni disponibili, in teoria, a guardare con favore a Mosca. E stupisce ancor di più non aver ascoltato richieste, vere o presunte, d'intervento attribuibili non solo alle autoproclamate Repubbliche del Donbass, ma alle minoranze russe del resto dell'Ucraina. Una pratica che in termini di propaganda rappresenta il minimo sindacale dovendo giustificare non solo l'attacco al Donbass, ma anche quello a Kiev. Una pratica applicata meticolosamente nel 2014 quando la rivolta filo russa di Donetsk e Lugansk fu preceduta dai referendum sull'indipendenza. Mentre, in Crimea, un altro referendum giustificò, anche se a posteriori, l'annessione.
Ma proprio l'assenza di un leader «alternativo» a Zelensky potrebbe spingere il Cremlino a rinunciare a quella «denazificazione» con cui si alludeva esplicitamente alla «decapitazione» del governo di Kiev. Anche perché l'unica alternativa possibile sarebbe un'occupazione militare di lungo periodo che, oltre a essere politicamente impresentabile, dovrebbe far i conti con lo stillicidio di perdite provocato da un'insopprimibile attività insurrezionale. I segnali di una possibile retromarcia del Cremlino potrebbero nascondersi in alcuni comunicati circolati ieri. «La nostra operazione non mira a occupare l'Ucraina, distruggere la sua sovranità nazionale e rovesciare l'attuale governo» spiegava ieri la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova confermando i colloqui di oggi in Turchia tra il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e l'omologo ucraino Dmytro Kuleba. Parole suonate come un'indiretta rassicurazione a Zelensky che difficilmente può accettare di mettere sul tavolo dei negoziati la propria capitolazione politica e militare. E alle rassicurazioni della Zakharova sono seguite quelle di Dmitri Peskov. Per il portavoce del Cremlino un negoziato di pace deve essere preceduto dalla disponibilità di Kiev a riconoscere legalmente che «la Crimea è parte della Russia e il Lugansk e il Donetsk sono Stati indipendenti».
In mancanza d'un leader a cui affidare l'Ucraina Mosca potrebbe dunque accontentarsi del compromesso offerto da Zelensky. Magari aggiungendo Mariupol e gli altri territori dei due oblast di cui i filorussi chiedono l'indipendenza.
Ma alla fine resterebbe un mistero perché il Cremlino non abbia puntato tutto sulla conquista di quei territori disperdendo tempo e forze nell'assedio a Kiev. E perché per ottenere così poco sia disposto ad accettare il peso di sanzioni senza precedenti. Un mistero che neanche la mancanza di un «quisling» riesce a spiegare.
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