
Prima a Palazzo Chigi il faccia a faccia tra Giorgia Meloni e Mark Rutte, segretario generale della Nato. Poi a Villa Madama la riunione a livello di ministri degli Esteri nel cosiddetto formato Weimar+, presieduta da Antonio Tajani e a cui hanno preso parte i suoi omologhi di Germania, Regno Unito, Francia, Polonia, Spagna e Ucraina, oltre allo stesso Rutte e all'alta rappresentante per la Politica estera Ue Kaja Kallas. Due appuntamenti preparatori e interlocutori, in attesa del G7 canadese del 15-17 giugno, a cui seguiranno il vertice Nato a L'Aia (24-25) e il Consiglio Ue (26-27). Un trittico decisivo per capire fino a che punto gli Stati Uniti hanno davvero intenzione di chiamarsi fuori dalla partita dell'Ucraina, che per l'Europa continua ad essere centrale.
Due incontri, quelli di ieri, che servono dunque a definire l'agenda con cui il blocco europeo si confronterà con Washington. Non solo sull'aumento della spesa militare sollecitato più volte da Donald Trump, ma anche sull'impegno degli Stati Uniti sul fronte del conflitto tra Mosca e Kiev e sul peso che avranno i minacciati dazi americani in vista della scadenza del 9 luglio. Non è un caso, infatti, che Tajani sottolinei come l'Italia sia «assolutamente favorevole a rinforzare il pilastro europeo della Nato» e «la difesa europea», seppure con tempi più lunghi perché «per raggiungere l'obiettivo del 5% del Pil servono una decina d'anni». Il tutto, però, facendo presente che «aumentare i dazi e aumentare le spese in sicurezza sono due cose in contrasto tra loro». Insomma, due obiettivi inconciliabili.
E di questo tenore è il colloquio che va in scena a Palazzo Chigi tra Meloni e Rutte. Con la premier che ha ribadito quanto già aveva detto la settimana scorsa al presidente del Consiglio Ue Antonio Costa. Siamo ben consapevoli - è il senso del ragionamento - che lo scenario è molto cambiato rispetto al passato e richiede investimenti in difesa, ma è necessario arrivare alla soglia del 5% del Pil con una certa flessibilità. Almeno dieci anni è il target a cui punta l'Italia. Favorevoli a una dilazione dei tempi, peraltro, sono anche Gran Bretagna, Spagna e con sfumature diverse Francia. Con Rutte, così è filtrato nelle scorse settimane, che avrebbe ipotizzato una soglia di sette anni. E che ieri, dopo un'ora di incontro a Palazzo Chigi, ha continuato a lasciare la porta aperta in vista del vertice a L'Aia. «Non ho comunicato nulla riguardo a una data di scadenza», ha detto a favore di telecamere. E, ha aggiunto, «sono fiducioso che raggiungeremo una posizione comune a tutti e 32» da portare al prossimo summit Nato.
Per l'Italia, per altro, flessibilità ed eurobond sono indispensabili per riuscire a mettere in campo così tanti miliardi di euro in pochi anni. Per ragioni contabili e anche politiche. Le prime sono chiarissime, visto anche il nostro debito pubblico. Le seconde, invece, più contingenti e legate alle posizioni di Matteo Salvini, piuttosto critico sul punto. Non un dettaglio, soprattutto se il leader della Lega continuasse a battere sull'argomento come ha fatto fino a oggi. Ma a prescindere dalle questioni di politica interna - che comunque accomunano l'Italia ad altri Paesi europei - il punto è che ormai i principali servizi di intelligence del Vecchio continente ritengono plausibile un attacco russo a Paesi Nato entro il 2030.
Non a caso, il Weimar+ si è concluso con una dichiarazione congiunta con cui i presenti si impegnano a
«aumentare le spese di difesa» comuni e «il contributo europeo alla Nato», sostenere l'Ucraina nella creazione di «un esercito e un'industria della difesa forti» e «intensificare la pressione su Mosca» con «nuove sanzioni».