«L'unico giorno facile era ieri»: le info di Whatsapp dicono molto di come il maggiore Giulia Cornacchione affronta la vita. Con determinazione e forza interiore, dopo che anche a lei, tra le primissime donne ufficiali dell'esercito, è toccato combattere contro un cancro al seno. Giulia ha deciso di parlare per la prima volta sui social della propria esperienza in vista di «Race for the cure», la corsa con raccolta fondi che si è svolta ieri a Roma, in un post condiviso tra gli altri dall'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti.
Com'è andata la corsa?
«È stata una giornata splendida, sono ancora emozionata. Hanno partecipato 50mila persone».
Com'è nata la sua partecipazione?
«Da quando mi sono ammalata, sei anni fa, ho sempre sostenuto la ricerca. Ho coinvolto le mie sorelle in armi, cioè le compagne di corso all'Accademia di Modena. Ogni anno partecipiamo alla gara, è una tradizione».
Quest'anno ha fondato anche una squadra.
«Si chiama Una Acies: Una sola schiera, è il motto dell'Accademia. Di recente alla Scuola sottufficiali di Viterbo, dove presto servizio, una ragazza è morta del mio stesso male. L'ho fatto per ricordarla, per la Festa della mamma. Il risultato in una settimana è stato eccezionale. Con il passaparola tra commilitoni si sono iscritte 800 persone e abbiamo raccolto 15mila euro. Nella famiglia dell'esercito è così: se chiami, tutti rispondono».
Suo padre è il generale di Corpo d'armata Giorgio Cornacchione, già comandante del Comando operativo interforze: è una vera figlia d'arte.
«Si spiega perché sognavo l'uniforme fin da piccola. Come molte bambine sono cresciuta con il mito del mio papà. Porto questo cognome con orgoglio».
Quando si è arruolata?
«Nel 2000. Mi sono iscritta al primo corso aperto alle donne dell'Accademia di Modena, il 182esimo. Sono stata quindi tra le primissime ragazze a diventare ufficiale dell'esercito. Sono poi stata assegnata al 17esimo Reggimento artiglieria contraerei di Sabaudia, dove ho ricoperto il mio primo incarico di comando. Ero la sola donna della Compagnia e comandavo quasi cento militari, tutti uomini. Sono stati anni bellissimi».
Successivamente è stata comandante di una batteria missilistica contraerea e in missione in Bosnia e Kosovo. Problemi legati al fatto di essere donna?
«Mai. Nelle forze armate veniamo formati tutti insieme e siamo tutti allo stesso livello. Affrontiamo uniti ogni sfida e pericolo. Veniamo valutati per ciò che sappiamo fare, non per la lunghezza dei capelli».
A proposito di capelli, per lei sono stati il simbolo della sua battaglia.
«Ho ricevuto la diagnosi poco dopo aver partorito mio figlio. Non ero a rischio: 35 anni, mai fumato, perfetta forma fisica. Pensavo che queste cose capitassero agli altri, ma improvvisamente l'altro ero io... Gli interventi, le cure: è stato duro. Dopo il secondo ciclo di chemio i capelli hanno cominciato a cadere e ho deciso di rasarmi a zero. L'ho fatto da sola. E non mi sono mai nascosta, ero pelata, inutile giraci intorno... Ma questo gesto mi ha dato forza. Ho capito che un passo alla volta potevo affrontare tutto, che potevo farcela».
Da lì sostiene la ricerca.
«Lorenzo, mio figlio, è il primo motivo per cui ho combattuto: non potevo lasciarlo solo.
E se oggi ho la possibilità di crescerlo, di esserci alla sua prima partita di calcio, lo devo alla ricerca. Perciò ci metto la faccia e trascino molti altri. Dopo il post con la mia foto senza capelli ho ricevuto tantissimi messaggi. Sono felice se ho sensibilizzato qualcuno o convinto qualcun altro a farsi un controllo».
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