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Blitz sui jihadisti persecutori

Missili Tomahawk Usa in Nigeria. "Buon Natale ai terroristi morti"

Uno screenshot del video dell'attacco pubblicato dal Pentagono
Uno screenshot del video dell'attacco pubblicato dal Pentagono
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Le armi non dormono mai: aspettano. E quando arrivano, lo fanno dal mare, in silenzio, lasciando alla terra il compito di raccontare il resto. Nella notte tra il 25 e il 26 dicembre, quel racconto è stato scritto da una pioggia di missili americani caduti sul Nord-Ovest della Nigeria, per colpire campi e postazioni jihadiste nello Stato di Sokoto, a ridosso del confine con il Niger. Un'operazione chirurgica, devastante, condotta con una dozzina di missili da crociera Tomahawk lanciati da unità della Marina Usa schierate nel Golfo di Guinea, in acque internazionali. Obiettivi centrati, secondo le prime ricostruzioni, in coordinamento con l'esercito nigeriano.

Il cuore dell'azione è stato il cacciatorpediniere "Paul Ignatius", appartenente alla Task Force 65. Una presenza che pesa più dei missili stessi: la CTF-65 è tradizionalmente associata al teatro europeo e mediterraneo, al contenimento della Russia. Vederla operare così a Sud, con capacità di attacco terrestre a lungo raggio, segna un cambio di paradigma nella postura strategica americana in Africa occidentale. Non più solo addestramento, intelligence e supporto: Washington torna a colpire direttamente. L'ultima operazione statunitense nell'area risale al 30 ottobre 2020, quando un reparto delle forze speciali condusse un'incursione clandestina nel distretto di Tangaza, la stessa zona colpita l'altra notte dai Tomahawk, liberando Philip Walton, cittadino americano rapito da una cellula jihadista.

Il teatro non è nuovo al sangue. Nella regione operano da anni Boko Haram e milizie affiliate allo Stato Islamico, in particolare l'Isis West Africa Province (Iswap), ideologicamente affine ma distinta dal gruppo storico. A queste si aggiunge una sigla meno nota e sempre più letale: Lakurawa, attiva proprio nel Nord-Ovest, tra Sokoto e Kebbi, dove le foreste offrono rifugio e profondità strategica. Il perché dell'attacco va cercato tanto sul terreno quanto a Washington. Da settimane il presidente Trump aveva alzato i toni contro Abuja, accusando il governo nigeriano di non riuscire, o non voler riuscire, a fermare la persecuzione delle comunità cristiane (circa 8mila morti solo nel 2025, 6mila i rapiti). A inizio novembre aveva ordinato al Pentagono di prepararsi a un'azione militare. Poco dopo, il Dipartimento di Stato aveva designato la Nigeria come "Paese di particolare preoccupazione", e annunciato restrizioni sui visti per funzionari coinvolti in violenze settarie.

L'annuncio dell'attacco è arrivato nella notte, come spesso accade con Trump, via social. "Su mia indicazione, in qualità di comandante in capo, gli Stati Uniti hanno sferrato un attacco potente e letale contro la feccia terroristica dell'Isis nel Nord-Ovest della Nigeria", ha scritto su Truth. Un messaggio carico di toni messianici e bellici: "Avevo già avvertito questi terroristi che se non avessero smesso di massacrare i cristiani, avrebbero pagato un prezzo altissimo. Stasera è successo". E ancora: "Buon Natale a tutti, compresi i terroristi morti".

Parole che hanno trovato una risposta ufficiale da Abuja. Il ministero degli Esteri nigeriano ha confermato i raid, sottolineando che l'operazione rientra in una cooperazione strutturata con partner internazionali, Stati Uniti in testa, nel rispetto del diritto internazionale e della sovranità nazionale. "Attacchi mirati contro obiettivi terroristici", li ha definiti la diplomazia nigeriana.

Ancora più esplicito il ministro degli Esteri Tuggar: "È stata la Nigeria a fornire le informazioni di intelligence", rivelando di aver parlato due volte al telefono con il segretario di Stato Usa Rubio prima del blitz. Diciannove minuti la prima chiamata, cinque la seconda. Il tempo necessario per trasformare dati e mappe in fuoco. E il Pentagono non esclude nuove azioni.

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