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Messner: "Montagne rovinate da auto, selfie e influencer"

Il grande alpinista Reinhold Messner e gli sos sul turismo selvaggio: "Overtourism limitato. Più rispetto per questi luoghi"

Messner: "Montagne rovinate da auto, selfie e influencer"

Reinhold Messner ha superato gli ottant'anni. È stato forse l'alpinista più celebre del mondo. Non so quante volte è salito sopra gli ottomila metri sull'Himalaya. Lui però dice che non è lui il più grande. Dice che il più grande è stato Walter Bonatti. Quel che è certo è che Messner tra i viventi è quello che le Alpi le conosce meglio di tutti.

È vero che le montagne sono travolte da overtourism?

"Beh, gli albergatori sarebbero contenti se gli hotel fossero pieni, no? Invece non sono pieni. Almeno, non lo sono in Trentino e in Alto Adige".

Quindi questa denuncia dell'overturism è una moda?

"È una lamentela che tutti copiano..."

Eppure ci sono dei luoghi della montagna strapieni...

"Ci sono dei luoghi speciali, pochi e piccoli, che sono stati promossi dagli influencer. Questi girano coi portatili e con i cellulari, e fanno le foto a una certa località, a una chiesa, a un prato. E quelli diventano luoghi cult. Tutti vanno là perché pensano che sia il posto più bello del mondo. È una forma di propaganda ma è una propaganda che non fa bene a quei luoghi, anzi, fa male".

Perché fa male?

"La gente va in qui luoghi e scatta altre fotografie, e le mette in rete, e diventano milioni di foto dello stesso luogo, e i turisti dopo aver fatto la foto e mangiato il panino che si sono portati da casa, tornano a valle e lasciano immondizia e non spendono neanche un euro".

Lei li conosce questi luoghi cult?

"Per esempio sotto il Seceda, tra il Vajolet e la val di Funes. È bello il punto. Lo conosco da 70 anni, ci andavo da bambino. Quel sentiero lì l'ho fatto migliaia di volte. Ma non avevo mai avuto la sensazione che quel punto lì che ora è famoso fosse più bello di altri. Ora c'è la funivia che sale dalla val Gardena, vedi le Odle, specie di sera, al calar del sole, è fantastico, Ma ci sono altri mille posti ugualmente belli".

La montagna deve essere aperta a tutti?

"Si, generalmente sì. Però dobbiamo trovare una soluzione per gli ingorghi di auto. Specie sui passi. Dobbiamo ridurre le valanghe di auto che si parcheggiano sui prati. Alle tre Cime di Lavaredo vanno su in macchina a migliaia tutti i giorni. Queste macchine trovano parcheggio esattamente sotto la parete. Così si violano i valori della montagna: il silenzio, la tranquillità, il paesaggio pulito".

Qual è la soluzione?

"Lasciarle selvagge le montagne da una certa quota in poi. E fermare le macchine e fare dei parcheggi e attrezzare delle navette che portano su".

È vero che la sua prima arrampicata la fece a cinque anni?

"Sette anni. Mio padre, mia madre e mio fratello. Ricordo molto bene l'ultimo albero che abbiamo lasciato alle spalle. Papà ha nascosto lì la scatola con le sigarette. Il momento magico non stava nell'arrampicata, né nel vedere tutte quelle montagne attorno a me, con papà che mi diceva tutti i nomi delle cime. La grande emozione è stata quando sono tornato alla malga, ho guardato in alto e mi sono stupito di essere riuscito ad arrivare fin lassù. Ero molto orgoglioso".

A che età ha aperto la prima via sulle Dolomiti?

"A 17 anni sulla Torre di Funes. 500 metri in verticale".

Come ci si sente a ottomila metri.

"È una zona dove puoi fermati solo poche ore, al massimo un giorno, altrimenti la mancanza d'ossigeno ti stende".

Lei ha giocato tutta la vita con la morte perché?

"Non ho giocato. Ho fatto il Monte Bianco, le Ande con le cime a 6000, ho fatto gli 8000 sull'Himalaya: il mio alpinismo tradizionale è quello che va dove la razza umana non è accettata. Noi andiamo nei posti più pericolosi del mondo per non morire. L'arte è non morire. È un'arte perché la morte è una possibilità. L'alpinista più bravo è quello che ha fatto tante esperienze nella zona della morte ed è sopravvissuto".

Lei ha il record di avere scalato tutte le 14 cime oltre gli ottomila che esistono in natura, senza l'aiuto delle bombole d'ossigeno. Ora un alpinista italiano cinquantenne, Marco Confortola, sostiene di avere fatto altrettanto. Ma il Cai (il Club Alpino italiano) non gli crede. Lei cosa ne pensa?

"Non conosco questa polemica e non mi interessa. Non conta quante cime hai scalato. Bisogna vedere come, per quale via sei salito, con quali mezzi, l'indice di difficoltà, come era il tempo...".

La scalata più drammatica della sua vita?

"Nel 1970 quando perse la vita mio fratello".

Me la racconta quella scalata?

"Mio fratello mi ha seguito anche se non era previsto. Il programma prevedeva che andassi su da solo nell'ultima parte della scalata. Mi ha sorpassato e siamo andati insieme fino alla vetta, oltre gli ottomila. Quando ha iniziato a scendere mio fratello ha sentito subito il mal di montagna. Non stava bene. Scendeva male. Io ho capito che dovevo trovare una via più facile di quella che stavamo facendo. E io sono sceso per cercare un modo più semplice di arrivare a valle. Lui è rimasto ad aspettare che io gli facessi un segno. A un certo punto è arrivata una valanga e l'ha travolto. Sono rimasto per giorni senza mangiare, senza aiuto, coi piedi quasi congelati, però alla fine sono riuscito a scendere vivo".

Dopo la morte di suo fratello non ha pensato di smettere?

"Sono rimasto in clinica per mesi. Mi hanno amputato alcune dita dei piedi. I miei genitori speravano che io smettessi. Ma ho deciso di riprendere dopo neanche un anno".

Lei ha fatto politica nei verdi. È stata un'esperienza importante?

"Sì, Ho capito come funziona la politica. Il nostro potere di parlamentari europei era poco poco. Erano i governi che decidevano, non il parlamento. Oggi faccio più politica di quando ero al parlamento europeo".

Mi dica la verità.

Chi è stato il più grande: Lacedelli, Bonatti, o Messner?

"Bonatti. In Francia mi volevano dare un premio. Io ho detto: non lo prendo se non lo date prima a Walter Bonatti. Lui dal 50 fino al 65 ha spostato i limiti dell'uomo. Aveva una filosofia che è molto vicina alla mia".

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