Colpa di Hollywood, dei duri alla Bogart sempre con la sigaretta in bocca; colpa dei politici delle tribune elettorali degli anni Settanta, pronti ad azzuffarsi in una nuova di fumo grigio; e colpa soprattutto dell'industria del tabacco, che fino a quando non vi fu costretta per legge si guardò bene dall'avvisare i consumatori del rischio esiziale cui li esponeva il vizio della nicotina. Antonio Scippa aveva iniziato a fumare a quindici anni, e morì a 54, dopo essersi fatto due pacchetti di Marlboro ogni giorno che Dio mandava in terra. E ora la Corte d'appello di Milano stabilisce che di quella morte furono responsabili i signori del business tabagista: l'Ente Italiano Tabacchi, ovvero la manifattura di Stato, passata nel 2004 (lo stesso anno in cui Scippa moriva), nelle mani della British American Tobacco. E agli eredi viene riconosciuto un megarisarcimento di 776mila euro, che con gli interessi sfiorerà il milione.
É una condanna che va in controtendenza rispetto a sentenze che in varie parti d'Italia hanno equiparato la morte da fumo a un lento, consapevole suicidio, attuato in piena libertà. Se ti rovini i polmoni con due pacchetti di «rosse» al giorno, avrebbero risposto in sostanza quelle sentenze ai familiari di Scippa, con che coraggio chiedi poi i danni? Sulla stessa linea si era mossa la difesa del colosso inglese: che il fumo uccidesse lo si sapeva già fin dal 1991, quando per legge l'avviso venne stampato su ogni pacchetto.
Invece no, dice la sentenza scritta dal giudice Giovanni Battista Rollero. Soprattutto tra i più giovani, tra i meno colti, il fascino della sigaretta era reso invincibile dai due grandi mezzi di persuasione di massa: il cinema e la televisione. É vero, gli articoli di stampa mettevano in guardia sui pericoli: ma sull'altro piatto c'era «l'impatto profondo che su intere generazioni di giovani (e non solo) hanno esercitato grandi produzioni cinematografiche, che hanno reso immortali personaggi per i quali la sigaretta, penzolante ad un angolo della bocca o tenuta elegantemente in una mano oppure la pipa o il sigaro erano parte essenziale del costume di scena». In una nota a margine, la sentenza fa anche degli esempi: «Clark Gable in Via col Vento (1939), Basil Rathbone in Le avventure di Sherlock Holmes ed ovviamente l' Humphrey Bogart di Casablanca (1942) e La regina d'Africa (1951) come James Dean di Gioventù bruciata (1955) ed anche un personaggio femminile, come la Rita Hayworth di Gilda (1946); venendo alle produzioni del periodo in cui il nostro sig. Scippa iniziò a fumare e si assuefece al fumo, come non pensare a L'appartamento di Billy Wilder (1960) ed a Lo spaccone (1961) in cui le sigarette fumate incessantemente da Paul Newman e dal suo avversario Minnesota Fats sono, non meno delle stecche da biliardo, oggetti di scena essenziali alla rappresentazione dell'ambiente in cui si svolge la storia; e per rimanere a Paul Newman (peraltro morto di cancro ai polmoni nel 2008), si pensi al personaggio interpretato ne La stangata (1973)».
Per non parlare dei «programmi televisivi dell'epoca che qui maggiormente rileva, quegli anni Sessanta e Settanta in cui le trasmissioni di propaganda elettorale ed i dibattiti fra gli esponenti dei vari partiti (le Tribune politiche in quegli anni assai seguite), si svolgevano generalmente tra persone che dopo breve tempo si ritrovavano avvolte in una densa nuvola di fumo, creata dalle sigarette o dalle pipe che quasi tutti fumavano, senza preoccupazione alcuna né per la propria salute né per il messaggio che la loro immagine
pubblica trasmetteva».Insomma: il fascino della sigaretta era poderoso. Ed era compito dei produttori combatterne la sudditanza, mettendo sull'avviso i consumatori. Non accadde, e per questo British American Tobacco deve pagare.
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