"Avere una Difesa in grado di assolvere il proprio compito non è una scelta di natura politica, è uno dei prerequisiti di sopravvivenza di una nazione". Così, a metà settembre, il ministro della Difesa Crosetto tracciava la rotta di quelle che sarebbero state le scelte "necessarie" per riorganizzare le difese italiane. E, con vista al 2026, anticipare l'arrivo di un testo in Parlamento a gennaio a cui sta lavorando il capo di Stato maggiore della Difesa (il generale Portolano che martedì sarà audito a Montecitorio, ndr) che darà corpo a quella "riorganizzazione totale della difesa" di cui il ministro ha già parlato alle commissioni di Senato e Camera.
Crosetto da tempo ripete che l'Italia non è pronta né a gestire un eventuale attacco russo né di un'altra nazione. C'è in prospettiva un boost in difesa informatica, dentro quella che ha le sembianze di una riforma complessiva. Ma si partirà intanto da investimenti per un sistema anti missili e droni per l'Italia, il cosiddetto dome nazionale. E cioè un'architettura protettiva multilivello (inclusa la difesa spaziale), che l'Italia non ha mai avuto, e secondo Crosetto non più rinunciabile. Sensori orbitanti per allarmi missilistici; radar avanzati; caccia di difesa aerea Gcap di sesta generazione; la batteria Samp-T next generation. Necessità che nasce da ciò che si continua a vedere in Israele e ogni giorno in Ucraina.
In attesa di riformare l'intero comparto difesa, novità sugli armamenti: rimpolpare gli arsenali, ammodernandoli laddove possibile. Produrre e comprare. E assieme all'industria tricolore si conta su quella a stelle e strisce. Tra le decisioni guidate dalla volontà di far cessare attacchi, ostilità, morti, in Ucraina come a Gaza, in Africa come in Asia, come da leit motiv del ministro, ieri è arrivata la notizia di un maxi acquisto dagli Usa. Il Dipartimento di Stato ha infatti approvato "una possibile vendita al governo italiano" di missili "Joint Air-to-Surface Standoff Missiles with Extended Range (Jassm-Er) e relative attrezzature per un costo stimato di 301 milioni di dollari" (258 milioni di euro), si legge in una nota della Defense Security Cooperation Agency (Dsca), che ha notificato il Congresso. Si precisa che Roma l'ha richiesta. E che la vendita servirà a "sostenere gli obiettivi di politica estera e sicurezza nazionale degli Stati Uniti migliorando la sicurezza di un alleato Nato, per stabilità politica e progresso economico in Europa". E "migliorerà le capacità dell'Italia di far fronte alle minacce attuali e future" con "sistemi avanzati di attacco a lungo raggio per l'impiego su caccia italiani, compresi, ma non solo, gli F-35". Non si parla dunque di minaccia russa. Né del pacchetto Ucraina.
Cosa significa? Da settimane, Oltreoceano si sta dando importanza a 4 parole: "Prioritized Ukraine Requirements List" (Purl), il programma gestito dalla Nato e sponsorizzato dagli Usa per intensificare gli acquisti dei Paesi membri dell'Alleanza di equipaggiamenti per Kiev, con predilezione per quelli prodotti negli States, che ne sforna in abbondanza, per poi eventualmente inviarle in coordinamento con il comando Nato di Ramstein; per consentire ai gialloblù di tener testa all'invasione russa. Formalmente, la maxi-commessa Usa non dovrebbe servire le necessità ucraine.
Ma visto che l'Italia tiene secretati gli aiuti a Kiev (tra cui, oltre a una batteria integrale Samp/T e un'altra con la Francia, ci sarebbero poche decine di missili terra-aria e a lungo raggio, semoventi e cannoni degli Anni Settanta, proiettili "rivitalizzati", mitragliatrici e lanciarazzi) non si può escludere a priori che, in caso di accordo di pace, possano per esempio contribuire a fornire garanzie di sicurezza al Paese.