La staffetta al potere fra leader politici è "irrilevante". Il "tradimento degli elettori sta nel fatto che i partiti che non hanno mai detto di essere disposti a fare un governo insieme lo hanno detto solo dopo le elezioni, dopo aver fregato il voto agli italiani". Parole diLuigi Di Maio, scritte su Facebook il 12 febbraio del 2014 ma ancora online, alla vigilia della campagna elettorale per le Europee poi conclusesi con il trionfo del Pd renziano con il 40% dei consensi. Parole che ben si adatterebbero allo schieramento trasversale per Palazzo Chigi che unisce leghisti e grillini ma che originariamente si riferivano alla coalizione improvvisata fra Monti, Bersani e Alfano.
Altri tempi, si dirà. Peccato che il leader politico grillino, allora "solo" vicepresidente della Camera in quota M5s, avesse fatto - come del resto tutto il MoVimento - della coerenza più intransigente e granitica il giacobino pilastro della propria linea politica. I purissimi Cinque Stelle o vanno soli o non vanno. Non andranno mai con chi si è reso responsabile dei "disastri" (parole loro, ndr) che avrebbero affondato l'Italia negli ultimi vent'anni.
Trascorrono quattro anni e Gigino si ritrova a fare la spola fra il Quirinale e i tavoli di trattative con quella Lega con cui appena l'anno scorso diceva di non avere alcuna intenzione di fare alleanze.
Allineandosi peraltro alla linea dettata da Beppe Grillo e ribadita da altri esponenti grillini di primo piano come Alessandro Di Battista e Roberto Fico.Certo, Di Maio potrà sempre trincerarsi dietro la (sottile) differenza fra alleanza e contratto di governo ma chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale sa che si tratta di una difesa assai debole.
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