nostro inviato a Torino
«Venga pure, l'aspetto. Ma non si immagini una sede lussuosa. E' solo casa mia. Parleremo in salotto». La sede di Exit Italia, in corso Monte Cucco 144 a Torino, è infatti un tutt'uno con l'abitazione del suo presidente, Emilio Coveri, ex manager Fiat, 66 anni, gli ultimi 20 dei quali trascorsi a lottare «per il diritto a una morte dignitosa». Il «call center dell'eutanasia» si trova in una stanzetta ingombra di appunti, numeri di telefono, fili, tastiere, computer, risme di carta. E su ogni foglio una storia che infilza l'anima. Exit ha oggi oltre 2.000 iscritti e aumentano di anno in anno: una famiglia allargata dove ognuno sostiene l'altro, e tutti sostengono la medesima causa: la legalizzazione del suicidio assistito. Una prova di civiltà che però stenta a prendere forma, anche perché in politica, purtroppo, le idiologie hanno sempre la meglio sul buonsenso. E così i faldoni dell'archivio Exit si ingolfano di odisee che sono come sale gettato sulle ferite: Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, Lucio Magri, il giudice Pietro D'Amico, l'assessore Daniela Cesarini, fino ai giorni scorsi con Fabo e il pensionato Gianni Trez. È la prova che 10 anni sono trascorsi invano. Nella sede Exit il telefono non smette mai di urlare «aiuto». Lui, Emilio, risponde con la sensibilità di chi sta lì per passione e non per dovere, predisponendosi ad ascoltare un rosario di parole raggelanti. Coveri è abituato a tutto, ma qualche chiamata ancora lo fa sobbalzare: «Sento lo squillo, alzo la cornetta e ascolto un signore che mi dice: Chiamo da Bari, le racconto la mia storia, poi vado nella camera da letto e strangolo mia moglie. Sono stanco di vederla soffrire. La moglie era da anni vittima di una malattia incurabile che aveva trasformato la sua vita in un inferno. Allora io cercai di rassicurarlo, indicandogli una via d'uscita che liberasse la moglie da dolore, senza portare lui in carcere». Già, la «via d'uscita». Exit. «Una porta spaccata verso una morte dignitosa, il contrario di una sopravvivenza umiliante tra cure forzate e accanimento terapeutico». Secondo lei la soluzione dignitosa è il suicidio assistito? «Quando ho fondato Exit ricevevo solo una telefonata al giorno. Oggi ne ricevo 100 alla settimana. Significa che ormai i malati incurabili avvertono come un diritto negato la possibilità di autodeterminare la propria fine». Un'esigenza che in Italia non è regolamentata da leggi, se non quella del Far West. «In 50 ogni anno vanno a morire in Svizzera, lo Stato italiano dovrebbe solo vergognarsi». Lo ha detto anche Fabo prima dell'ultimo addio. «So quello che Fabo ha provato. Ci sono passato anch'io. Stavo malissimo. I medici mi davano per spacciato (Coveri è quasi cieco a causa di una malattia degenerativa, la retinite pigmentosa ndr). Mi ero rivolto a una clinica svizzera della dolce morte. Ma al momento di formalizzare la mia eutanasia, mi sono fermato. Sono stato un vigliacco. Ma in quell'istante ho deciso che avrei dedicato la mia vita ai malati terminali più coraggiosi di me: quegli stessi malati che vedo bere con gioia, quasi fosse una liberazione, il veleno dinanzi a cui io ho fatto marcia indietro». Eppure in quel giorno del «grande rifiuto» Coveri è rinato: la sua vita è tornata ad avere senso, nel solco dell'aiuto al prossimo. La «via d'uscita» ha sbattuto la porta all'eutanasia. A dimostrazione che una morte «cercata» non è mai una soluzione. «Anche noi di Exit amiamo la vita, io cerco sempre di dissuadere chi pensa al suicidio, ma quando la sofferenza diventa dolore intollerabile, bisogna essere liberi di dire basta». E sei dovesse diventare totalmente cieco? «Tornerei in quella clinica, ma questa volta avrei il coraggio di bere il veleno.
Ho già avvertito mio figlio: dopo la cremazione, voglio che le ceneri vengano disperse in Sardegna, di fronte a Cala Greca, proprio dove da giovane andavo a pescare. E a farmi compagnia ci saranno per sempre i miei amici gabbiani».
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