Gli stemmi che spiccano sulle mimetiche dei combattenti curdi non lasciano dubbi: un teschio con le ossa incrociate, un altro ancora con una benda nera dei pirati sull’occhio. Basco amaranto e kalashnikov a tracolla sono i Peshmerga, che significa “pronti alla morte” per il Kurdistan, la regione autonoma nel Nord dell’Iraq che assomiglia ad uno Stato. La trincea scavata per fermare gli assalti dei mezzi minati lanciati come arieti dalle bandiere nere del Califfato durante la guerra del 2014-2017 si snoda ancora come un lungo budello per oltre mille chilometri. Adesso la possibile minaccia sono Hashd al-Shaabi, le milizie sciite. La Frontline Academy del Giornale ha portato gli aspiranti reporter di guerra ed i lettori avventurosi del viaggio in Iraq a Bashiqa, un settore del vallo curdo rafforzato da fortini color ocra con torrette e filo spinato. L’obiettivo è far vivere sul campo un reportage e raccontare in presa diretta l’evoluzione dell’Iraq fra luci e ombre. I Peshmerga al comando del generale Ahmed Nabi, sono a totale disposizione dei giovani dell’Academy e dei lettori, che girano video e scattano foto dei combattenti in trincea. Oltre a provare stand up descrivendo brevemente la scena davanti all’obiettivo per realizzare il mini documentario che trovate sul sito del Giornale.
Il movimento di truppe attira l’attenzione di un blindato delle Forze di mobilitazione popolare, che spunta ad un chilometro da noi. “Le milizie sciite sono come l’Isis” spiega un veterano, che racconta come piombavano su questa linea di difesa i kamikaze- ariete dello Stato islamico per aprirsi un varco. Le formazioni paramilitari erano nate per fermare l’Isis e oggi sono di fatto integrate nelle forze di sicurezza irachene. Però, alcuni gruppi, che prendono ordini dal vicino Iran degli ayatollah, rimangono sulla lista nera Usa del terrorismo internazionale. Nel 2017 le milizie sciite e l’esercito iracheno si sono scontrati con i curdi sloggiandoli da Kirkuk, la città ricca di petrolio e gas.
I Peshmerga si addestrano al fuoco in un poligono ricavato fra le rocce e spiegano che “Daesh (il nome arabo dello Stato islamico nda) ha ancora cellule dormienti annidate nei villaggi o nelle grotte delle zone montagnose”.
Durante il viaggio è stato diramato un allarme “per un lupo solitario dell’Isis pronto a farsi esplodere nel quartiere cristiano di Ankawa” ad Erbil in vista del voto nazionale iracheno del 9-11 novembre. Per fortuna non è accaduto nulla.
A Mosul, che era stata proclamata “capitale” del Califfato, la città vecchia è rimasta un cumulo di macerie provocate dalla furiosa battaglia dell’esercito iracheno per liberarla dalle bandiere nere. Bossoli, il contenitore di una bomba a mano, medicinali, giacche militari sono abbandonate nella polvere. Quando i combattenti jihadisti finivano le munizioni e capivano che non c’era più nulla da fare, si facevano esplodere con i giubbotti esplosivi. Sui muri sbrecciati delle case ridotte a ruderi non mancano le scritte “safe”, la firma dei genieri che avevano bonificato l’area dalle trappole minate. Un murales fra le macerie rende l’idea: una bambina con un vestitino azzurro tiene per mano il suo orsacchiotto camminando in mezzo alle bombe.
A Qaraqosh, cuore cristiano, nella piana di Ninive rimane come ricordo e monito il campanile abbattuto durante la guerra con l’Isis della chiesa dei santi Behnam e Sarah ricostruita, come la splendida cattedrale annerita dalle fiamme durante il conflitto. Padre Wisham, che ha vissuto l’esodo di 150mila cristiani nell’agosto del 2014, costretti alla fuga davanti all’avanzata fulminea della bandiere nere verso Mosul ammette con un velo di rassegnazione: “Prima vivevano 60mila cristiani a Qaraqosh. Dopo la guerra sono tornati la metà”. Ad Erbil il vescovo caldeo Bashar Matti Warda ci accoglie nella cattedrale e sottolinea: “Negli ultimi 50 anni la percentuale dei cristiani in medio Oriente è precipitata dal 20% a meno del 3%”. In Iraq sono rimasti appena 150mila cristiani e la maggioranza, 80mila, vivono ad Erbil, in Kurdistan, considerato più sicuro. Alla sera, una volta rientrati in albergo, è il momento del corso per gli aspiranti giornalisti di guerra. Si proiettano i video reportage realizzati durante la battaglia di Mosul oppure sui combattimenti dei Peshmerga lungo la linea trincerata. Non mancano momenti di relax come il dopocena a fumare il narghilè. E pure toccanti come il caffè di Dohuk tappezzato con le foto dei Peshmerga caduti per difendere il Kurdistan comprese le loro armi fatte a pezzi oppure il telefonino, gli occhiali, l’orologio o il portafoglio diventati dei cimeli.
Il viaggio della Frontline Academy prevede anche l’incontro con personaggi che ci fanno capire la realtà sul campo del calibro di Niyaz Saleh Barzani, braccio destro del presidente del Kurdistan per le relazioni esterne. Oltre al console italiano, Tommaso Sansone, che è stato di grande aiuto per il viaggio e la rappresentante in Italia del governo regionale curdo, Rezan Kader.Non solo i cristiani hanno sofferto l’occupazione sanguinaria dell’Isis. La minoranza yazida è stata sterminata e 6mila ragazzine o donne sono state ridotte a schiave sessuali dei tagliagole jihadisti. Solo la metà è sopravvissuta. Un’altra “prova” dell’Academy e momento importante del viaggio è la visita al campo profughi alle porte di Dohuk. Diecimila yazidi vivono ancora sotto le tende rafforzate da qualche mattone. “Vogliamo tornare a Sinjar, la città da dove siamo fuggiti oltre dieci anni fa davanti all’Isis” si lamentano le donne, che mostrano sui telefonini le foto dei parenti scomparsi ancora oggi. I curdi hanno combattuto duramente per liberare Sinjar, ma la “capitale” yazida è nel territorio federale e i profughi sono diventati tema di scontro fra il Kurdistan e Baghdad.
L’ospitalità curda è leggendaria e per immergersi nella realtà e nelle tradizioni locali il modo migliore è una cena in casa seduti per terra con le gambe incrociate davanti ad una sfilza di prelibatezze da mangiare con le mani.
Il capofamiglia si ricorda bene i tempi della dittatura di Saddam Hussein abbattuta dall’invasione americana, che ha scoperchiato il vaso di Pandora del terrorismo e dell’influenza degli ayatollah iraniani. Gli basta una frase secca per fare capire tutto: “Saddam era il diavolo, ma ancora oggi ce ne sono di peggiori”.