Non è un déjà-vu né un battesimo del fuoco sulla cronaca nazionale ma una cresima, nel senso di conferma. Chi si affaccia dalle finestre del centro, almeno di quel che ne rimane, le nota per forza: sono le troupe delle grandi emittenti televisive. Di nuovo lì, a immortalare un crimine, un altro, in un contesto che fatica a definirsi estraneo ma ci prova. Per la seconda volta in poco tempo, le telecamere irrompono nell'artificiale quiete paesana, squarciandola. Alatri è il teatro, ancora Alatri, che non è più piccolo borgo antico ma periferia profonda: una presa di coscienza collettiva che forse non è stata interiorizzata a dovere. Alatri, che tanto si interroga sulle sue origini megalitiche, costretta a fare i conti con un'altra domanda: quella sulla presenza della criminalità organizzata o delle «bande», per usare l'espressione del procuratore Antonio Guerriero. Sono passati quasi sei anni dall'omicidio di Emanuele Morganti, un dramma che ha sollevato le coscienze di una provincia intera e non solo. Il quadro è diverso e questa volta hanno persino sparato. Thomas Bricca lotta tra la vita e la morte. Prima il diciannovenne viene dato «clinicamente morto», poi si accende la speranza per una «lieve attività cerebrale». Spuntano striscioni pieni di ottimismo. Ma il confine tra la vita e la morte non può essere un alibi per una comunità costretta a specchiarsi. A spaventare è la brevità della linea temporale: è una nascita della tragedia che non smette di definirsi. E la percezione borghese della sicurezza si dissolve una volta di più. Dicono che poco o nulla, tra un caso e l'altro, sia cambiato. A mo' di riprova: una settimana di risse non è servita a far risuonare le giuste sirene. A far scattare qualcosa in chi di dovere.
«Strapaese» - come lo chiamano - è sangue più che tradizione, è efferatezza più che rioni, è dolore più che rifugio dalla vita metropolitana. Vale per questa cittadina in provincia di Frosinone ma per il centro Italia tutto. La grande città attrae le identità e i particolarismi finendo per inglobarli e destrutturarli. I centri storici e le loro caratteristiche sociali, sicurezza compresa, scompaiono, a mano a mano: ormai lo sappiano. Lo sanno i sociologi, gli antropologi, i filosofi, i politici, le istituzioni e persino i giornalisti. Frosinone stessa non regge l'urto di Roma. Figurarsi come una piccola realtà, senza più terziario e tessuto sociale, possa resistere ad entrambe. Ma dicono che il fenomeno, che è universale, non sia reversibile. È un effetto della globalizzazione, insistono. O almeno della sua gestione scellerata. Solo che il vuoto lascia spazio a chi sa riempire. E chi lo sa riempire spesso spara per le strade. Chi abita nel Lazio sa cosa significa «camorrizzazione». Non tanto sotto il profilo del movente di questo o di quel delitto quanto del clima collegiale vissuto. Sono tutte le cosiddette «aree interne», a ben vedere, a doversi difendere. È il nostro Appennino, parte integrante dell' identità nazionale, a scoprirsi sempre più depopolato, impoverito, fragile, degradato, pendolarizzato, dipendente e disagiato.
È un pezzo centrale della storia patria, dove peraltro a breve i cittadini voteranno per le Regionali, a urlare pietà da una parte e aiuto dall'altra. Aiuto e pietà che spettano alle istituzioni e che non sono più rimandabili.
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