Magistratura

La nemesi dell'Associazione magistrati. Quei leader finiti nei guai con la giustizia

Da Palamara a Bruti e Davigo, quanti vertici sindacali inquisiti

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Si potrebbe definire la maledizione dell'Anm. Nello scontro infuocato tra magistratura e governo c'è un dato che fa sorridere, soprattutto se collegato alla levata di scudi delle toghe rosse contro il tentativo di riforma della giustizia da parte di Nordio e Meloni. Parliamo del rapporto con la giustizia proprio di coloro che presiedono il sindacato della magistratura. Già, perché se si ripercorrono gli ultimi anni, si noterà che non sono pochi i presidenti dell'Anm che sono finiti invischiati in indagini, scontri interni, processi e condanne.

Il caso sicuramente più famoso è quello di Luca Palamara, che ha da poco patteggiato a un anno con pena sospesa per quanto riguarda il filone principale dell'inchiesta che lo ha visto imputato a Perugia prima per corruzione, reato poi derubricato nel meno grave traffico di influenze illecite.

E che dire poi dell'ex presidente dell'Anm Piercamillo Davigo? Investito in pieno dalla nemesi, uno dei principali simboli del giustizialismo italiano il 20 giugno scorso è stato condannato in primo grado dal tribunale di Brescia a un anno e tre mesi con la sospensione condizionale della pena. Motivo? Rivelazione di segreto sui verbali della Loggia Ungheria. Sintomatiche le parole del pm Donato Greco sul suo conto: «Si erge a paladino della giustizia per tutelare una legalità che a suo dire è stata violata, ma l'unica legalità violata è quella nel salotto di casa dove sono usciti dal perimetro investigativo atti coperti da segreto che dopo un po' di tempo vanno a finire sui giornali». Ancora più dure quelle scritte nero su bianco nelle motivazioni della sentenza: «Modalità quasi carbonare» e «smarrimento di una postura istituzionale», solo per citare le più roboanti.

Nel novero dei presidenti dell'Anm finiti nelle maglie della giustizia rientra pure Edmondo Bruti Liberati che, negli anni in cui era a capo della procura di Milano e andava in scena la guerra con il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, venne indagato a Brescia con l'accusa di omissione di atti d'ufficio e denunciato al Csm in merito a presunte irregolarità nell'assegnazione dei fascicoli ai vari pool. Nel 2015 entrambi i litiganti finirono sotto i riflettori della sezione disciplinare del Csm.

Infine, nel 2017, l'allora presidente dell'Anm e pm della Procura di Roma Eugenio Albamonte venne indagato per falso e abuso d'ufficio dopo un esposto presentato da Giulio Occhionero, l'ingegnere nucleare accusato, assieme alla sorella Francesca Maria, di una attività di cyberspionaggio. Iscrizione nel registro degli indagati considerata all'epoca un atto dovuto. Eppure ci vollero comunque tre anni prima che lo stesso Albamonte venisse prosciolto. Insomma, ora che la storia si ripete e l'Anm accusa il governo di mettere in atto una delegittimazione della categoria e di sferrare un attacco alla democrazia non si può dire che l'Anm abbia proprio un rapporto cristallino con la stessa giustizia di cui si erge a difensore.

Da che pulpito viene la predica, direbbe qualcuno.

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