La nipote scampata all'agguato mortale

Segretaria generale della Sicilia, nel 1980 era nell'auto con il padre Piersanti

La nipote scampata all'agguato mortale
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Tra poco saranno passati quarantacinque anni. Ieri Maria Mattarella muore senza sapere il nome dell'uomo col k-way celeste che alle 12,45 del 6 gennaio 1980 sbucò dal nulla in via Libertà, a Palermo, camminando senza fretta. Maria era seduta sul sedile posteriore della Fiat 132, accanto alla nonna. Davanti sua madre Irma e al volante suo padre Piersanti. Il biondino col k-way cerca di aprire la portiera, non ci riesce, spara attraverso il finestrino, colpisce Mattarella alla testa. La pistola si inceppa quando il lavoro non è ancora finito. Il sicario va da un complice che lo aspetta su una 127, si fa dare un'altra arma, torna per dare il colpo di grazia. Muore il presidente democristiano della Regione Sicilia, nella storia nera d'Italia entra un altro delitto eccellente. Negli occhi di una ragazza di diciassette anni restano impresse per tutta la vita le immagini della mattanza di suo padre.

Piersanti era fratello di maggiore di Sergio, che oggi è presidente della Repubblica: e ieri allo zio della donna scomparsa arrivano messaggi di cordoglio affettuosi e trasversali. Lei, Maria, dai riflettori e dalle tentazioni della politica è sempre stata lontana. Viveva a Palermo, lavorava in Regione, nel palazzo di cui suo padre era stato presidente, e aveva salito i gradini della carriera fino a diventarne segretario generale. Da lì, in silenzio, fuori dai riflettori, aveva seguito l'ascesa di zio Sergio fino al Quirinale. Lì aveva atteso invano di sapere il nome del giovane uomo con la giacca a vento che aveva fatto di lei un'orfana, e dell'altro che dalla 127 aveva passato la pistola del colpo di grazia. Insieme ai nomi aveva aspettato inutilmente la spiegazione di quel delitto di cui già poche ore dopo Leonardo Sciascia aveva colto tutta l'ambiguità: «O è mafia cammuffata da terrorismo o terrorismo che, inevitabilmente e confortevolmente, ci si ostina a vedere come mafia».

La confusione e l'inquinamento cominciarono subito, quando il corpo di Mattarella era ancora caldo: «Qui Nuclei fascisti rivoluzionari, rivendichiamo l'attentato». Alle 18,48 rivendicazione opposta: «Qui Prima Linea». Alle 19,10: «Qui Brigate Rosse».

C'era, da subito, la spiegazione più semplice, più diretta: Piersanti muore perché ha un «rigore morale che non aveva precedenti nella vita politica siciliana», dirà la sentenza, perché vuole rendere trasparenti gli appalti, efficienti i controlli sulle opere pubbliche. Si è dimesso da presidente, ma sta per essere rieletto. Interrogato dai pm, il fratello Sergio calibra le parole: parla del «pregiudizio arrecato a centri di interesse extraistituzionali», «causale sufficiente per decretarne la morte». I pentiti - Buscetta, Contorno, Marino Mannoia - fanno il resto. L'intera Cupola di Cosa Nostra, con Michele Greco e Totò Riina in testa, il 12 aprile 1995 viene condannata all'ergastolo.

La stessa sentenza che condanna i boss azzera l'unica traccia che portava ai sicari, ed era quella che complicava tutto: Cristiano Fioravanti, pentito di ultradestra, interrogato da Giovanni Falcone nel 1981 indica suo fratello Giusva e il suo camerata Massimo Cavallini come esecutori materiali dell'omicidio. «Per fare un favore a Cosa Nostra».

Ma da quando Cosa Nostra ha bisogno di killer venuti da Roma per ammazzare un uomo nel cuore di Palermo? Irma Mattarella però riconosce Giusva Fioravanti, prima «forse», poi «con certezza»: è lui, dice, l'uomo «dai lineamenti gentili e dallo sguardo spietato» che ha ucciso Piersanti. I giudici non le credono, i pentiti la smentiscono, e indicano come sicari una sfilza di nomi. Tutti assolti anche loro. Nel suo appartamento al Quirinale, anche il fratello dell'ucciso aspetta ancora di sapere.

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