«Non sono in crisi i talk show ma chi si sente il dio della tv»

«Non sono in crisi i talk show ma chi si sente il dio della tv»

Quinta colonna di Paolo Del Debbio va controtendenza. Nelle prime tre puntate di quest'anno ha incrementato lo share medio dello 0,5 per cento, dal 4,4 al 4,9 e gli spettatori hanno superato la soglia del milione. È la classica eccezione che conferma la regola.

Allora, Del Debbio, i talk show sono in crisi o no?

«No. Sono in crisi alcuni, non tutti. Diciamo che è finita la ricreazione».

Cioè?

«Oltre ad aver inventato la tv commerciale, Berlusconi ha fatto un'altra cosa fondamentale per la televisione italiana. È diventato lui stesso un'enorme mangiatoia alla quale si sono nutriti tutti, da sinistra per attaccarlo, da destra per difenderlo. Ci hanno mangiato di più i conduttori di sinistra, che sono la maggioranza. Il Cavaliere era un comunicatore talmente forte che ad andargli contro si guadagnava visibilità facile».

Epoca finita?

«Senza Berlusconi in prima linea molti han dovuto mettersi a dieta. Qualcuno si dichiara anoressico e dice che non gli piace mangiare. In realtà, è vuota la mangiatoia alla quale si abbuffava».

Però di approfondimenti giornalistici ce ne sono troppi.

«È come per i negozi di frutta e verdura in città. Lo decidono i consumatori se sono troppi. Modestamente il mio negozietto funziona. Si vede che c'è una clientela che apprezza i miei prodotti».

Ce ne sono troppi perché costano poco.

«Questo sicuramente. Con una puntata di un grande show ci fai mezza stagione di talk show».

Si fanno più per esigenza degli editori che dei telespettatori?

«Infatti, quando non funzionano li chiudono. Se andassi al 3 per cento mi chiuderebbero all'istante. Come i negozi di cui vediamo le saracinesche abbassate. Non si può fare della lotta dell'audience un dogma, come fosse la lotta di classe. Questo lo dico anche ai giornalisti. Prima scrivevano che ero berlusconiano, poi grillino, ora renziano. A me interessa quello che dice il pubblico e mi tengo stretto il mio 5 per cento».

Questi programmi si somigliano tutti: il servizio dalle piazze, l'imprenditore che porta l'azienda all'estero...

«Le piazze le hanno schifate tutti. Quando le facemmo noi nel 2012 era populismo. Adesso tutti ci portano le telecamere. Ma io dico: diffidate delle imitazioni».

Anche Santoro lo dice...

«Santoro se la veda con Cairo. Quando andava in piazza lui scomodava la tragedia greca, ora è solo cabaret. Di fronte a dio, mi accontento dell'avanspettacolo. Però consiglio a Santoro di leggere La nascita della tragedia di Nietzsche. Ho rispetto di tutti i colleghi, ma quando dettano le tavole della legge dei palinsesti come fossero sul Sinai resto perplesso. Certi messianismi non mi convincono. Stiamo facendo televisione, mica tentando di sconfiggere il cancro».

Cambiata un'epoca è difficile reinventarsi?

«Lo spiegano gli psicologi: quando punti sull'antagonismo, se vien meno l'avversario crolli anche tu. Poi si facciano tutti un esame di coscienza. Santoro è un maestro della tv. Se si mette a pensarci un po': è cambiato il mondo, può cambiare anche Santoro. C'è una prateria davanti...».

Ma la politica è ancora televisivamente appassionante come due anni fa?

«Certo che sì.

In un paese dove ci sono 10 milioni di persone vicine alla soglia di povertà, altro che se c'è spazio per il talk politico! Se invece è un'operazione onanistica, tutta interna al Palazzo, allora no. Allora è facile che muoia. Bisogna andare fuori e tornare per le strade...».

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