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Il Nord Europa attacca l'Italia: patto di stabilità? Giù le mani

I Paesi frugali: "Deficit e debito non si toccano". Ma spunta l'idea di non contare gli investimenti green

Il Nord Europa attacca l'Italia: patto di stabilità? Giù le mani

Più che frugali, sono gli ultimi dei mohicani. Inarrendevoli, resilienti fino alla cocciutaggine, affetti dalla nostalgia canaglia per il tempo che fu, quello dell'austerity. Non appena la riforma del Patto di stabilità aleggia nell'aria, ecco soffiare forte il vento contrario che arriva da Nord e porta con sè una lettera velenosa, spedita ieri all'Ecofin dai ministri delle Finanze di Austria, Danimarca, Lettonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Finlandia, Paesi Bassi e Svezia. Il concetto espresso è tanto basico quanto tranchant: le regole su deficit e debito, sospese a causa della pandemia fino al 2022, non si toccano in quanto totem a difesa della stabilità e della sana gestione delle finanze pubbliche.

Degni epigoni dell'ex titolare del Tesoro tedesco, Wolfgang Schaeuble, il primo a chiedere nel giugno scorso di marcare stretto il club degli spendaccioni, i Paesi alla ricerca del rigore di bilancio perduto sembrano insomma non prestare orecchio alle richieste di rimodulare il Patto. Nè badare alla leader della Bce Christine Lagarde che, come Mario Draghi, ha sottolineato ieri la netta differenza fra il debito buono e quello cattivo. Un conto è sprecare, altro è investire. Ma, soprattutto, i «nordici» fingono di ignorare l'effetto collaterale causato dal ripristino di norme che impongono di tagliare di un ventesimo all'anno il debito eccedente il 60% del Pil: ovvero, uno scivolamento in recessione di molti Paesi che finirebbe, peraltro, per aggravarne la posizione debitoria, nell'eurozona già ora in media superiore al 102%.

Già si sapeva che la discussione sul Patto post-Covid sarebbe stata un'arrampicata piena di trappole. Adesso è una scalata all'Everest con le infradito. «Non è certo che un accordo possa essere raggiunto entro fine 2022», ha spiegato il commissario all'Economia, Paolo Gentiloni. Non inganni la carota che viene dopo il bastone nella missiva dei frugal eight: «Siamo aperti al dibattito sul miglioramento della governance economica e fiscale», ma la flessibilità è la stessa di un binario: si può discutere solo di «semplificazioni e adattamenti che favoriscano un'applicazione coerente, trasparente e migliore, nonchè l'applicazione delle regole». La stella polare deve restare «la riduzione dei tassi eccessivi di debito», anche perché «conti pubblici sostenibili» aiutano a «sostenere il lavoro e il welfare per le generazioni presenti e future». In altre parole, «la disattivazione della Clausola generale di salvaguardia e una possibile riforma del Patto di stabilità non dovrebbero essere collegate». Una pietra tombale calata sugli slanci riformistici.

Non tutto è perduto, però. Un escamotage, gradito a Gentiloni perché non impone la riscrittura del Trattato Ue, prevede la revisione delle norme contenute nel Six Pack (il set di regole sulle politiche di bilancio) in modo da rendere più morbidi i criteri di rientro dal debito. L'altra opzione, suggerita dal think tank Bruegel e sostenuta dal ministro francese delle Finanze Bruno Le Maire, parte dal presupposto che gli investimenti pubblici aggiuntivi per raggiungere gli obiettivi climatici dell'Ue dovranno essere dello 0,5%-1% del Pil all'anno durante questo decennio. Un percorso che impone regole più elastiche. L'idea è quindi quella di introdurre una «Green Golden Rule» che escluderebbe gli investimenti verdi dagli indicatori fiscali utilizzati per misurare la conformità alle regole di bilancio. Un modo per centrare l'obiettivo di ridurre a zero entro il 2050 le emissioni nette di CO2.

E dire, forse, finalmente addio a Maastricht e ai suoi derivati tossici.

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