La sapevano lunga i discografici della CGD che quando nel 1966 pubblicarono il singolo Cento giorni, cantato da Caterina Caselli, decisero di abbinarlo al lato b Tutto nero, cover casareccia di Paint it black dei Rolling Stones. Perché nei (primi?) cento giorni del Covid made in Italy, tutto è stato nero.
L'abbiamo presa alla lontana perché siamo in epoca di distanziamenti anche citazionistici. Oggi sono cento giorni tondi da quel 21 febbraio in cui l'Italia scoprì di essere contagiata. Naturalmente tutto era già successo, ma noi non potevamo saperlo. Il virus girava da giorni, da settimane, da mesi, ma noi avemmo bisogno del «paziente uno», Mattia Maestri da Codogno, per avere la password dell'incubo. Lui che la sera del giorno prima, un giovedì, si era recato per la terza volta nel pronto soccorso dell'ospedale della località lodigiana con i sintomi di una polmonite che fino ad allora nessuno aveva associato all'idea di quel virus che veniva dalla Cina e che per noi fino ad allora voleva dire una roba lontana di mangiatori di pipistrelli, di mercati alimentari sporchi, di «mica arriverà qui». Ma Mattia peggiorava, a un certo punto fu ricoverato e una bionda anestesista dal sorriso incantevole non fece la «bionda» ed ebbe l'«intuizione zero», facendo partire il contatore della paura.
Cento giorni sono il tempo del primo bilancio di qualsiasi cosa. Si fa con i nuovi governi, con i sindaci e i con i presidenti di regione, si fa con gli allenatori di calcio che potrebbero non mangiare il panettone, la Caselli lo faceva con il fidanzato e la resa dei conti non sembrava granché («Io ti amo/io ti amo,/più della vita, lo sai./Per cento giorni, per cento anni/non finirò di amarti mai»), va fatto anche per le nostre vite covidizzate, distanziate, tracciate, mascherinizzate, depauperizzate, divanizzate, disoccupate, movidizzate.
Intanto questi cento giorni sembrano molti di più, sembrano mille (altra canzone: «Mille giorni di me e di te» di Claudio Baglioni, altro struggente bilancio musicarello). Sono stati una guerra, la guerra dei cento giorni, definizione con cui gli storici designano quel periodo del 1815 che scandì l'illusorio ritorno al potere di Napoleone prima che Luigi XVIII potesse tornare sul trono di Parigi. Curioso che per il Bonaparte quei cento giorni furono una parentesi tra un lockdown all'Elba e l'altro a Sant'Elena mentre per noi è proprio dentro quella parentesi temporale che si è sviluppato il nostro esilio domestico.
In questi cento giorni l'Italia è stata avanguardia dell'Occidente e non avremmo voluto avere questo primato. La politica ha dovuto confrontarsi con tempi accelerati, e le decisioni prese sono state a volte troppo lente e a volte troppo affrettate.
Abbiamo stampato decine di autocertificato, letto riga per riga decine di decreti del governo (cosa che prima succedeva soltanto negli studi professionali), abbiamo eletto gli immunologi a star televisive (dal governo dei tecnici al governo dei virologi), abbiamo fatto pizze, chat flessioni, riflessioni. Poi ci siamo svegliati con la voglia di normalità, cento giorni dopo, sperando di non dover contare fino a duecento.
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