Il Pd prova ad alzare la voce, a segnalare al premier (e ad un'opinione pubblica sempre più nervosa) il proprio giudizio negativo e l'allarme per la paralisi decisionale del governo, a fare «da pungolo» a Conte, come traduce cautamente qualche ministro.
Il segretario Zingaretti tenta di dare la linea, concede interviste-manifesto in cui spiega quali sarebbero le priorità su cui intervenire e denuncia i «dossier» lasciati a marcire da Conte: questioni fondamentali se si vuol sperare che il paese possa tentare di riprendersi (da Autostrade al Mes, da Ilva alla scuola e Alitalia) ma mollate a decomporsi nei cassetti di Palazzo Chigi. «Ci sono dossier aperti da troppo tempo che il governo ha la necessità di risolvere», dice il leader Pd al Foglio. «Servono concretezza e lungimiranza, è compito del governo dimostrare di saper uscire dalla genericità dei progetti». Quello di Zingaretti non è l'unico attacco al premier: il capogruppo alla Camera Delrio spara contro il taglio dell'Iva: «Non era tra le priorità del governo: se il premier vuole cambiare agenda ce ne spieghi le ragioni». E quello al Senato Marcucci infierisce sui ritardi: «Il governo deve decidersi a risolvere le questioni lasciate aperte: non si può passare da un tavolo ad un altro tavolo». Sembra un'offensiva in piena regola, da pre-crisi. Ma in verità, al Nazareno, si respira un'aria scorata di pessimistica impotenza: «Più che dirglielo, che possiamo fare?».
Impotenti: prendete il caso Azzolina. I dem pensano che la ministra sia una catastrofe ambulante, «incapace di gestire un ufficio da bidella, figurarsi il ministero», ringhia un parlamentare. E sanno che il bubbone scuola è una micidiale bomba ad orologeria pronta a scoppiare nel loro elettorato: insegnanti, presidi, famiglie, tutti sono esasperati per il caos sulle riaperture, e un fallimento avrebbe ripercussioni pesanti nel voto. La cosa più logica, in un Paese normale, sarebbe licenziare la ministra e sostituirla con qualcuno in grado di fare quel mestiere: ieri si è fatto avanti pure l'ex ministro Lorenzo Fioramonti. «Ma non si può neppure sollevare la questione - si spiega in casa Pd - la Azzolina è di Fico, Fico è di Conte, ergo la signora non si può toccare, se no viene giù tutto». Lo stesso discorso vale per Tridico all'Inps: nonostante il fallimento su tutti i fronti e i dati infondati e smentiti diffusi a più riprese dall'Istituto (esemplari quelli secondo cui i poveri non esistevano quasi più grazie alle politiche grilline) ieri Conte gli ha ribadito la sua «assoluta fiducia». Per non parlare di Mimmo Parisi a Anpal e dei tanti altri personaggi messi in posti chiave di governo e sottogoverno, e che non vengono rimossi nonostante i danni che creano.
Nel Pd cresce la disaffezione per l'esecutivo giallorosso, e si fa strada la paura per il futuro: «Il momento è molto, molto difficile». E può ulteriormente degenerare: davanti all'inaffidabilità e ai confusi proclami del governo italiano, aumentano in Ue le resistenze sul Recovery fund. C'è allarme sulle Regionali d'autunno. E preoccupa la madre di tutte le scadenze: l'elezione del prossimo presidente della Repubblica. Il Pd pare aver capito quel che era piuttosto chiaro: fare l'accordo su un nome con i grillini è utopia.
E nutrono un sospetto: che Conte, galleggiando fino al 2022, coltivi il sogno di diventare il candidato obbligato anche per i dem, con i voti M5s (che non hanno papabili) e magari con quelli di un pezzo di centrodestra. Quell'uscita a sorpresa sull'Iva si spiega solo come un nuovo tentativo di seduzione del premier verso quei mondi.
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