Tra Palazzo Chigi e il Senato ieri sembrava esserci una distanza siderale. Con Mario Draghi deciso ad andare avanti dritto, senza esitazioni né incertezze, sulla linea fin ad oggi tenuta dal governo sull'Ucraina. E con la maggioranza riunita a Palazzo Madama per oltre quattro ore nel tentativo di limare, aggiustare, mettere, togliere e rimettere una parola o un aggettivo, così da trovare finalmente un punto di caduta comune per la risoluzione che il Senato dovrà votare oggi dopo le comunicazioni del premier. Che della grande agitazione all'interno della maggioranza e in particolare del M5s, pare essersi interessato davvero poco. Un distacco dovuto ad una considerazione piuttosto banale, visto che è del tutto evidente che la nostra politica estera, in particolare su una questione così centrale come la guerra in Ucraina, non può dipendere dalla resa dei conti interna ad un partito o dalla scelta di uno o più leader politici di giocarsi la campagna elettorale persino su un tema tanto drammatico. Di qui il disinteresse del premier verso la riunione fiume del Senato, allargata a circa una ventina di persone e con il ministro dei Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà e il sottosegretario agli Affari europei Vincenzo Amendola a fare le veci dell'esecutivo. Ieri a tarda sera ancora stavano discutendo se rifarsi al primo decreto Ucraina (che prevedeva un «atto di indirizzo» delle Camere a cui far poi seguire i decreti ministeriali) o immaginare una formulazione più stringente. E probabilmente continueranno a farlo fino ad oggi, quando alle 15 Draghi sarà in Senato per le comunicazioni in vista del Consiglio Ue di giovedì e venerdì.
Il nodo, ovviamente, è l'eventuale invio di nuovi armi a Kiev, tema su cui Giuseppe Conte (ma anche Matteo Salvini) si sono esposti con una certa decisione. Una questione su cui l'ex numero uno della Bce continua però a non avere alcuna esitazione. Non solo o non tanto perché non ha intenzione di farsi commissariare da due partiti che si muovono già in una logica da campagna elettorale, quanto perché è di tutta evidenza che si tratta di decisioni strategiche che non riguardano solo l'Italia ma il ruolo e la presenza del nostro Paese all'interno dell'Ue. Insomma, se Unione europea e Nato dovessero esprimersi a favore di nuovi invii di armi, decidere di non seguirli significherebbe mettere l'Italia in una condizione di conflitto con le istituzioni comunitarie. Sarebbe ovviamente una scelta legittima, ma con delle conseguenze politiche importanti. Una circostanza di cui è consapevole lo stesso Conte, tanto che dopo aver minacciato fuoco e fiamme è ora alla ricerca di una mediazione che gli permetta di uscire dal voto di oggi salvando la faccia.
A prescindere dalla trattativa in corso nella maggioranza, dunque, oggi Draghi tirerà dritto sulla linea atlantista, ribadirà il sostegno incondizionato a Kiev e la necessità che l'Ucraina inizi il processo di adesione all'Ue. Sul fronte economico, invece, punterà sulla necessità di fare fronte comune alla crisi energetica e rilancerà la necessità di un tetto al prezzo del gas, anche per cercare di frenare la corsa dell'inflazione. In particolare sul price cap, l'ex Bce vorrebbe ottenere che il prossimo Consiglio Ue indichi una data certa in cui il tetto entrerà in vigore.
Appuntamento alle 15 a Palazzo Madama, dunque. E replica domani mattina alla Camera. Con l'obiettivo di riuscire a sbloccare l'iter per far ottenere all'Ucraina lo status di Paese candidato all'ingresso dell'Ue.
È questo, infatti, il principale obiettivo dell'ultimo Consiglio a presidenza francese. Con un Draghi che sembra sempre più deciso a ritagliarsi un ruolo di guida della politica europea in un momento in cui le leadership di Francia e Germania sono, per ragioni diverse, piuttosto in affanno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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