Oligarchi pro tregua e lobby della guerra. Lo Zar paralizzato dalle lotte intestine

Immobilismo di Putin dovuto agli scontri. Ma così rischia di spazientire Donald

Oligarchi pro tregua e lobby della guerra. Lo Zar paralizzato dalle lotte intestine
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Guerra e pace. Il titolo del capolavoro di Lev Tolstoj è oggi il grande dilemma di Vladimir Putin. Dietro alle dichiarazioni dei portavoce che dichiarano «ora tocca a Kiev» e parlano di un Cremlino «pronto ai colloqui» si cela la tenaglia che imprigiona il presidente. Da una parte preme l'élite finanziaria e commerciale, la stessa arricchitasi fin qui con la guerra, decisa ora a sostenere il negoziato. Sul fronte opposto preme una galassia bellicista intrisa di nazionalismo religioso che considera la guerra un sfida esistenziale.

La principale paura dei grandi magnati è un'inflazione fuori controllo capace di compromettere la crescita economica garantita dall'economia di guerra. Nonostante una crescita del Pil arrivata nel 2024 a toccare il 4,3% Elvira Nabiullina, la governatrice della Banca Centrale a cui Putin concede carta bianca, continua a tenere i tassi d'interesse al 21%. Una scelta contestata apertamente da banchieri come German Gref e Andrei Kostin - titolari di Sberbank e Vtb - o da oligarchi come Igor Sechin boss di Rosneft, Oleg Deripaska re dell'alluminio o Alexei Mordashov padrone delle acciaierie Severstal. Ma gli attacchi alla Nabiullina, accusata di portare il Paese a una stagnazione generata dell'eccesso d'inflazione, rappresentano anche un'indiretta critica all'immobilismo del Cremlino. Un immobilismo che nei timore degli oligarchi rischia di spazientire Donald Trump e innescare le sanzioni secondarie già evocate dalla Casa Bianca. Sanzioni capaci di paralizzare le aziende e le banche di paesi come Turchia, Cina e India attraverso cui Mosca triangola le proprie merci sui mercati internazionali e incassa pagamenti in euro o dollari.

Alle pretese degli oligarchi si contrappone un partito della guerra che considera la vittoria sul campo indispensabile per espellere l'Occidente dalla cosiddetta area d'influenza russa, disarmare l'Ucraina, estromettere Zelensky e riportare Kiev sotto il controllo di un governo amico. Risultati a cui va aggiunto, oltre al riconoscimento dell'annessione della Crimea, anche quello dei quattro «oblast» di Lugansk, Donetsk, Kerson e Zaporizhzhia. Seppur solo parzialmente occupate dalle truppe di Mosca quelle regioni sono state dichiarate parte della Russia con una modifica costituzionale introdotta dopo i contestatissimi referendum del settembre 2022. I primi a considerare un tradimento la cancellazione di quella modifica sarebbero i 500mila soldati che hanno combattuto su quelle linee e sono oggi i meno disposti ad accettare una vittoria mutilata. Sentimenti di cui, visti i precedente della rivolta di Prigozhin e dei capi della Wagner, Putin non può non tener conto. Ma a rendere estremamente compatti reduci e combattenti contribuiscono anche gli stipendi. Grazie agli aumenti garantiti in questi anni il salario di un militare di prima linea parte ormai da una base di circa 2.400 euro al mese a cui s'aggiungono incentivi per l'arruolamento fino a 25mila euro e indennità, in caso di morte sul campo, da oltre 110mila euro.

Ma ad alimentare la percezione di una sfida esistenziale in cui non c'è spazio per la trattativa contribuisce anche una chiesa ortodossa che - a differenza di quanto auspica Trump - gradisce assai poco l'idea di un negoziato tra le mura del Vaticano.

Sentimenti ben espressi da personaggi come Konstantin Valerevi Malofeev, fondatore del gruppo mediatico Tsargrad e cantore di un nuovo imperialismo zarista, che intervistato mesi fa da Il Giornale spiegava così l'inutilità di un negoziato con Kiev. «L'esistenza dell'Ucraina è solo un falso storico. Non c'è ragione per cui l'Ucraina possa o debba continuare a esistere».

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