
Il ceto medio arranca e vorrebbe stare meglio, ma la colpa è sua per aver tagliato il ramo su cui stava seduto. Se due italiani su tre ne fanno parte, allora il ceto medio È il Paese e gli tocca la responsabilità della cultura mainstream che ha ispirato e sostenuto le politiche sulla produzione e distribuzione della ricchezza, che oggi gli stanno strette secondo il rapporto Censis «Rilanciare l'Italia dal ceto medio. Riconoscere competenze e merito, ripensare fisco e welfare».
La sua grande lamentela è che «le retribuzioni attuali non riflettono in modo adeguato il valore delle competenze reali». Ecco il disallineamento di fondo. Il reddito può essere sì funzione delle competenze, ma solo nella misura in cui queste vengono usate per produrre un valore, mentre tanti credono che siano attribuite da un titolo o da una posizione, a prescindere dal risultato del proprio lavoro. Il ceto medio si misura sull'essere non sul fare. Il 13% ha un reddito familiare lordo fino a 15.000 euro: e ti ritieni ceto medio? E quel 28% della fascia «popolare» cosa sarebbero, homeless? Se pensi che con 1.250 euro al mese come famiglia fai parte del ceto medio, il problema è che sei autoreferenziale. «È di ceto medio chi si sente tale». Del resto, se metà sono diplomati e due su cinque laureati, «il fattore identitario più importante per chi si sente di ceto medio è il livello culturale, mix specifico di titolo di studio, competenze, conoscenze, interessi culturali ecc..., che conta più del lavoro svolto e della propria condizione economica». Ceto medio è uno status, non un risultato, e infatti l'Italia è un sistema non esaltato dal merito ma appiattito dal livellamento.
Ora pare abbiano capito che così non funziona e dal Rapporto emerge la voglia di attribuire maggior valore alle competenze manageriali, per «restituire centralità a chi sa decidere, orientare, essere riferimento, guidare e fare nei processi socio-economici e nei sistemi complessi, riconoscendo il valore del merito, rendendo possibile una maggiore sintonia tra competenze, lavoro e impegno da un lato e riconoscimento economico dall'altro». Sul serio?
Poi «indicano come priorità dell'agenda sociopolitica il taglio delle tasse sui redditi» anche perché «in cambio di alte tasse si ricevono servizi pubblici scadenti». Giusto, ma sono disposti a tagliare la spesa pubblica? Il fisco recupera circa 20 miliardi all'anno di tasse non versate ma la pressione fiscale invece di diminuire aumenta. Ancora, da decenni parliamo di spending review, una manciata di miliardi poco più che simbolica laddove una qualsiasi corporation taglierebbe qualche centinaio di miliardi migliorando pure la qualità dei servizi resi, e nessun governo è in grado di farla perché toglierebbe a qualcuno la sedia e ad altri il piatto. Di più, ci abbiamo aggiunto il Pnrr. Troppi italiani campano grazie a un sistema che dispensa soldi indipendentemente dal merito, prendendoli da quelli che producono valore, e sono tantissimi, nonostante un sistema-Paese che anziché agevolarli li ostacola.
Infine, il grande tema dei figli, la cui condizione economica sarà peggiore di quella attuale dei genitori. Giusto, ma non è stato il ceto medio a sostenere la filosofia che ha sgangherato la scuola, alleggerendola degli studi che impegnano ed educano la mente ad apprendere e risolvere, per livellare verso il basso e lasciare spazio ad attività più piacevoli e meno ossessive, dai fumetti alla danza, dal nuoto alla recitazione? Chi ha accettato che fosse un parcheggio da cui ottenere un pezzo-di-carta senza troppi compiti a intralciare il weekend? Dopotutto, i figli avrebbero dovuto essere, mica fare.
Vedremo se il ceto medio sia davvero pronto a cambiare qualcosa o se non valga ciò che Il Gattopardo diceva dei siciliani, che
«non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria». Nel frattempo, il ramo è segato e tocca aspettare che ricresca. «Se» lo fanno ricrescere.