«Le differenze di partito non hanno importanza in questo momento. Tutti coloro che credono nei valori di questo Paese deve votare democratico il prossimo autunno. La storia ci guarda». Firmato, via Twitter: James Comey, il repubblicano ed ex direttore dell'Fbi che, rimosso lo scorso maggio dalla poltrona di capo dell'intelligence da Trump, raccontò come il presidente gli avesse fatto continue pressioni per abbandonare l'indagine sul Russiagate. Ora Comey dice che voterà democratico per la prima volta, invitando altri a seguirlo. «Questo Congresso repubblicano si è dimostrato incapace di realizzare il disegno dei Padri Fondatori secondo cui l'ambizione deve contrastare l'ambizione» - scrive citando James Madison. È la prova che il TrumPutin di Helsinki potrebbe essere il punto di svolta che i dem aspettano da tempo.
Dopo il vertice tra i due leader che ha fatto gridare al tradimento anche molti repubblicani (da John McCain a Arnold Schwarzenegger, da Michael Steel a Lindsey Graham), adesso la sfida si sposta sulle elezioni di midterm. Chiusa la pausa estiva, mancheranno appena due mesi al fatidico 6 novembre, quando i democratici tenteranno l'assalto alla Camera, che si rinnova completamente (ma dove la battaglia sarà dura) ma soprattutto al Senato (che si rinnova per un terzo) in cui i repubblicani hanno una maggioranza risicata di 51 a 49.
Così, mentre il presidente continua a difendere la sua linea di apertura a Mosca, i democratici scaldano i motori, sperando di cavalcare l'indignazione e di usare, per una volta con successo, questioni di politica estera a fini interni (un gioco che finora non ha funzionato). Il senatore democratico Shaheen e il deputato Joe Kennedy III (nipote di Bob e pronipote di Jfk) chiedono addirittura che il traduttore americano, unico presente al vertice di Helsinki con l'omologo russo, testimoni davanti al Congresso. E a metterci del suo, già a settembre, potrebbe essere proprio Barack Obama scendendo in campo - dicono fonti interne alla sua squadra - anche per sostenere i governatori democratici in gioco nella partita aperta in 36 Stati. Non è un caso che dal Sudafrica l'ex leader Usa abbia pronunciato un discorso in cui ha rilanciato valori di apertura e anti-razzismo, denunciando «la politica dell'uomo forte in ascesa», mentre «quelli che sono al potere minano ogni istituzione o norma che danno significato alla democrazia».
Trump, dal canto suo, alle 6 del mattino (ora di Washington) ha rivendicato con orgoglio via Twitter il risultato del vertice: «Putin e io siamo andati davvero bene e questo ha disturbato molti haters (odiatori, ndr) che volevano vedere un incontro di boxe. Arriveranno grandi risultati». Poi l'accusa di squilibrio mentale a chi lo ha criticato: «Alcune persone odiano il fatto che io vada d'accordo con Putin, preferirebbero andare in guerra, si chiama Trump Derangement Syndrome». Infine il capolavoro: «Così tante persone ai vertici dell'intelligence sono rimaste entusiaste della mia conferenza a Helsinki».
Parole che arrivano poche ore dopo la marcia indietro dello stesso presidente, che a causa delle polemiche per aver definito «una farsa» il Russiagate, tornato negli Usa ha dovuto precisare di essersi sbagliato: le intrusioni russe ci sono state e «piena» è la sua fiducia nell'intelligence. Secondo una fonte della Nbc, a spingere The Donald al dietrofront, in un incontro privato a tre, sono stati il vicepresidente Mike Pence e il segretario di Stato Mike Pompeo.
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