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Ora l'Italia cambi passo. Il piano post-Berlino per "domare" Erdogan

Petrolio, jihad e migranti: il Sultano ha in mano Tripoli. Ecco come Roma può tornare centrale

Ora l'Italia cambi passo. Il piano post-Berlino per "domare" Erdogan

Se vogliamo continuare ad abbassar la testa fingendo di contare qualcosa mentre i nostri interessi nazionali in Libia vengono erosi e compromessi allora il premier Giuseppe Conte e il ministro degli esteri Luigi di Maio devono solo continuare sulla propria linea. Ovvero confidare che qualcuno risolva i problemi per noi e mosso a compassione dalla nostra irrilevante sudditanza accetti alla fine di restituirci qualche scarna fettina del bottino sottrattoci. Ma c'è anche un'altra strada. La Conferenza di Berlino dimostra che - fatta eccezione per il presidente turco Recep Tayyp Erdogan e quello russo Vladimir Putin - nessuno in Europa ha il controllo della situazione, né un'esperienza paragonabile a quella italiana. Per questo, seppur nella sostanziale indeterminatezza realizzativa, le conclusioni di Berlino offrono un appiglio per tornare a contare. La più importante, oltre a cessate il fuoco ed embargo, è quella ricordata in un tweet di Conte che prevede un processo politico per arrivare un governo unico. Questo, al di là del linguaggio diplomatico, significa mettere da parte Serraj, trasformatosi in una marionetta turca pericolosa per i nostri interessi e sostituirlo con un esecutivo capace di rappresentare anche le fazioni legate al generale Khalifa Haftar e ai suoi alleati. L'Italia deve quindi abbandonare l'attendismo inconcludente celato dietro la neutralità dialogante della coppia Conte-Di Maio e avviare una profonda revisione strategica. Se prima era corretto stare con l'esecutivo di Tripoli per difendere gas e petrolio dell'Eni e controllare i flussi migratori oggi non è più così.

L'accordo turco-libico che consente ad Ankara di rivendicare un'egemonia territoriale sul Mediterraneo Orientale e il patto di assistenza militare utilizzato da Erdogan per inviare mercenari jihadisti a Tripoli ribaltano il panorama strategico. Oggi il governo di Tripoli non è più l'esecutivo dell'Onu, ma un governo fantoccio del Sultano. Ed è nostro nemico perché fornisce alla Turchia le giustificazioni legali per sottrarci il controllo dei pozzi off-shore della Tripolitania e limitare le attività dell'Eni nel Mediterraneo. Ma non solo. Consegnandosi a Erdogan Serraj gli regala il controllo di quei flussi migratori già utilizzati dal Sultano per ricattare l'Europa. Ma se prima il ricatto turco toccava solo la rotta balcanica e minacciava «in primis» la Germania oggi è una spada di Damocle sospesa sulle nostre coste. Inoltre usando gli ex-ribelli siriani come mercenari sui fronti libici Erdogan trasforma la Tripolitania in un porto franco per i gruppi dell'integralismo islamico attivi nel Sahel e in una comoda piattaforma di rientro per tutti i jihadisti europei reduci da Siria e Iraq.

Per difendere i propri interessi l'Italia deve mettere in chiaro che Erdogan è oggi un suo nemico e premere su Onu, Usa, Russia ed Europa per trasformare le conclusioni di Berlino nella piattaforma politico diplomatica indispensabile a metterlo all'angolo. Questo non significa far vincere Haftar, ma dar vita ad un nuovo governo di unità nazionale. Un governo che escluda Serraj e tutti i complici più stretti di Erdogan e della Fratellanza Musulmana e includa invece alcuni referenti politici vicino ad Haftar.

Solo la collaborazione con un nuovo esecutivo di questo tipo sostenuto dalla comunità internazionale potrà portare ad un intervento militare indispensabile per disarmare le milizie jihadiste, contenere l'interventismo turco e restituirci il ruolo di potenza «super partes».

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