«I migliori eroi sono quelli morti». L'aforisma è sicuramente cinico, ma anche estremamente attuale. I 264 fra feriti e sopravvissuti del Reggimento Azov evacuati lunedì notte dai sotterranei dell'acciaieria di Mariupol ne rappresentano il migliore esempio. La Russia, già messa alla gogna e accusata di crimini di guerra, non poteva certo permettersi di farli marcire e morire nei cunicoli dell'Azovstal. Anche perché Kiev ne avrebbe approfittato per trasformare quel sepolcro nel simulacro di un'inammissibile efferatezza. Volodymyr Zelenskyy e il suo governo non potevano, invece, esimersi dal negoziare la salvezza di quei militari diventati nell'immaginario collettivo il simbolo della più impavida e disinteressata resistenza. «Gli eroi servono vivi» ha detto lunedì Zelensky facendo sapere di aver acconsentito alla resa. Ma molti hanno notato come la decisione abbia richiesto almeno due settimane di sofferte riflessioni.
Dietro l'apparente entusiasmo di Kiev, e dietro la disponibilità esibita da Mosca, si nascondono infatti molti «ma» e molte incognite. La gran parte dei quali pesano, per ora, sulle spalle delle autorità di Donetsk. A loro tocca, infatti, l'ingrato compito di accollarsi l'evacuazione, le cure e la custodia di quei primi 264 reduci dell'Azovstal. Un compito assolto assai a malincuore. Per la gran parte dei cittadini di questa repubblica i militanti del Reggimento Azov sono, infatti, i principali responsabili della catena di violenze, uccisioni e discriminazioni etniche subite dalle popolazioni filorusse dopo il 2014. E, come se non bastasse, il Reggimento Azov e i suoi militanti rappresentano anche l'icona di quel ritorno al «nazismo» denunciato da Mosca e dai suoi alleati. Una denuncia non è molto lontana dalla realtà. Nato nel 2014 come milizia di estrema destra pronta ad accogliere, armare e addestrare i militanti ultra-nazionalisti provenienti dall'Ucraina e dall'estero il reggimento non ha mai fatto mistero della propria fede. La sua insegna è una variazione della Wolfsangel (trappola per i lupi) la runa usata dai movimenti nazisti tedeschi prima dell'introduzione della svastica e adottata nella seconda guerra mondiale, dalle divisioni delle Waffen SS presenti in Ucraina. Gran parte degli abitanti di Donetsk e del Donbass sono dunque d'accordo con il deputato russo Leonid Slutsk convinto che i soldati del battaglione Azov «non meritano di vivere dopo i mostruosi crimini contro l'umanità subiti dai nostri prigionieri». E chi, qui a Donetsk, non pretende di passarli immediatamente per le armi vorrebbe almeno di sottoporli a un processo per crimini guerra. Una posizione sostenuta a Mosca dal presidente della Duma Vyacheslav Volodin secondo il quale «i criminali nazisti non dovrebbero essere scambiati, ma processati».
La decisione finale spetterà ovviamente a Vladimir Putin. «Il presidente ha garantito che saranno trattati in linea con le leggi internazionali in materia» si è limitato a dire ieri il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. La prospettiva di uno scambio con i prigionieri russi, probabilmente già deciso nelle trattative precedenti l'evacuazione, rischia però di delegittimare le autorità di Donetsk costringendole a far i conti con il malcontento dei propri abitanti. Se da questa parte Donetsk subisce i contraccolpi politici conseguenza della scelte di Mosca dall'altra neppure Zelensky guarda con troppo entusiasmo al ritorno a casa degli eroi di Mariupol.
Il rientro degli uomini diventati il simbolo della resistenza dell'acciaieria minaccia non solo di appannare la sua immagine di presidente coraggioso, ma anche di regalare nuova linfa all'estrema destra trasformandola nella forza politica più imbarazzante di un'Ucraina pronta a metter piede in Europa e nella Nato.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.