«C'è una inchiesta in corso, e io sono in pensione». Edmondo Bruti Liberati dribbla così, ieri mattina, i tentativi di farlo sbottonare su quanto di clamoroso sta accadendo a Milano, e che apparentemente è facile da decifrare: la Procura generale, di solito un po' sonnacchiosa, ricovero per magistrati non più in vena di sudare su inchieste e turni notturni, che parte all'attacco e in pochi giorni riesce dove la Procura della Repubblica governata da Bruti ha fallito, portando a galla le magagne di Expo e le colpe del sindaco Beppe Sala. D'altronde Bruti sa bene che molti a Milano pensano che la sua gestione non scoprì le magagne non per impossibilità o inettitudine, ma per un tacito patto di non aggressione. Fu lo stesso Matteo Renzi, in visita a Milano, a ringraziare incautamente e pubblicamente Bruti per la «sensibilità istituzionale» dimostrata evitando di affossare Expo sotto raffiche di avvisi di garanzia. A voler schematizzare in modo un po' brutale, la storia si potrebbe scriverla così: la Procura in mano alla sinistra ha graziato Sala, la Procura generale in mano alla destra - il capo è Roberto Alfonso, toga assai moderata - scende in campo e lo affossa.
Eppure (e per fortuna) la realtà è più complessa. Le carte dell'inchiesta di allora e dell'indagine di oggi raccontano che a occuparsi della pratica che oggi inguaia Sala, ovvero la sostituzione retrodatata di quattro supplenti della commissione aggiudicatrice di Expo, non fu Bruti ma il suo arcirivale, Alfredo Robledo, che all'epoca in cui giunse in procura il rapporto della Guardia di finanza era ancora a capo del pool anticorruzione. Venne esautorato da Bruti, che si autonominò a capo di tutte le indagini su Expo, solo all'inizio del 2015. A considerare penalmente irrilevante quella nomina furono due pm del pool di Robledo, Roberto Pellicano e Paolo Filippini. D'altronde la stessa Guardia di finanza nel suo rapporto escludeva che «la sostituzione abbia comportato delle irregolarità nell'epilogo della procedura di gara».
Oggi quel banale rimpiazzo diventa penalmente rilevante e porta addirittura all'impeachment del sindaco di Milano. Come è possibile? Se il procuratore generale Felice Isnardi aveva come obiettivo Sala, c'era a disposizione una strada molto più diritta e comoda: incriminare anche lui per turbativa d'asta insieme ai suoi manager, quelli direttamente responsabili di una operazione ben più succosa. L'inverosimile ribasso con cui la Mantovani, e prima di lei le coop rosse, conquistarono gli appalti Expo, e la disinvoltura con cui vennero poi ricompensate con continui aggiustamenti, ebbero - secondo più di una testimonianza - la benedizione di Sala, cui in quei frangenti interessava solo fare in fretta. Ma la fretta non è un'attenuante per i reati commessi in suo nome.
Invece la Procura generale sceglie di contestare a Sala una bagatella, una firma di cui (e stavolta gli si può credere) il sindaco dice di nemmeno ricordarsi. Così lascia aperti due scenari.
O l'accusa di falso è solo l'inizio, il passepartout per portare Sala nell'inchiesta, e poi allargare il tiro ad altre accuse; o è un falso attacco, un gesto simbolico che la stessa Procura generale è pronta ad archiviare dopo avere sentito Sala.Non si sa quale sia lo scenario peggiore.
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