E due. Dopo avere ingoiato il taglio immediato dei parlamentari, che quando era all'opposizione aveva fieramente avversato, il Partito democratico ribalta la sua linea su un altro tema chiave: la riforma della prescrizione, voluta anch'essa dai 5 Stelle ai tempi del governo gialloverde, e considerata allora dal Pd (saggiamente) una barbarie giudiziaria. Ma sull'altare della nuova alleanza con i grillini, il partito di Zingaretti sacrifica anche i diritti degli imputati: prima di tutto, quello a non restare sotto processo in eterno, di non consumare la propria vita in attesa di una sentenza definitiva. E invece no. A gennaio entra in vigore la legge che di fatto cancella la prescrizione. Ed entra in vigore con la benedizione del Pd.
L'annuncio viene dato ieri, con comprensibile soddisfazione, dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede, che quella riforma ha fortemente voluto. Ieri Bonafede, in compagnia del premier Giuseppe Conte, incontra il suo predecessore Andrea Orlando, oggi vicesegretario del Pd. Insieme, ministro ed ex ministro si accordano per una riforma dell'intero sistema della giustizia italiana, per renderla più veloce e più efficiente. È una riforma di cui si parla da decenni, e che lo stesso Bonafede (uno dei due ministri del Conte 1 rimasti al loro posto nel Conte 2) aveva già promesso di varare entro il 2018, e di cui non si è vista traccia. Ora Bonafede annuncia, probabilmente senza crederci neanche lui, che la grande riforma sarà pronta entro quest'anno. Ma una cosa è certa: riforma o non riforma, il prossimo 1 gennaio entra in vigore la legge sulla prescrizione. «Tra gli obiettivi del nuovo governo non c'è quello di modificare la disciplina della prescrizione», dice il ministro all'uscita dal vertice.
Renzi avverte che «diremo la nostra in Aula», mentre Andrea Orlando non fa una piega. Eppure appena venti giorni fa il suo capogruppo in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli, spiegava al Foglio che «il primo passo da compiere per il nuovo governo è rinviare l'entrata in vigore della riforma della prescrizione, perché non possiamo lavorare con questa spada di Damocle sulla testa». Contrordine compagni: la spada resta lì, e a Capodanno piomberà sulla testa degli imputati.
Invano, in questi mesi, giuristi di ogni orientamento hanno cercato di spiegare che la riforma avrà risultati opposti a quelli proclamati, allungando all'infinito, anziché accorciarli, i tempi della giustizia. Il testo è semplice, nella sua rudimentalità, ed è al comma e) del primo articolo della cosiddetta legge «spazzacorrotti». Dice semplicemente che «il corso della prescrizione rimane sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio». Dopo il primo grado, insomma, il processo entrerà in un iperspazio dove non esistono più tempi di durata: chi è stato assolto potrà restare anni e decenni col timore di un appello che ribalti tutto, chi è stato condannato aspetterà all'infinito di vedersi assolvere. Il suo certificato dei carichi pendenti resterà sporco, non avrà prestiti dalle banche, non potrà partecipare a concorsi pubblici.
Come i penalisti italiani hanno spiegato inutilmente il 18 dicembre scorso, quando hanno scioperato contro la legge, l'unica molla che costringe i giudici a celebrare in tempi ragionevoli i processi d'appello e in Cassazione è il decorso della prescrizione.
Smontata quella molla, non c'è più fretta. Centotrentasei professori universitari avevano scritto al capo dello Stato denunciando la incostituzionalità della legge, e chiedendogli di rinviarla alle Camere. Niente da fare.
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