
Quali sono i reali obiettivi della Cina nella guerra dei dazi? La comunicazione cinese, che in questa fase è stata combattiva, fornisce una chiave di lettura per capire quanto Pechino consideri serio il terremoto economico e politico giunto dagli Stati Uniti. Pensiamo alla diffusione di video di Ronald Reagan, con sottotitoli in cinese, per rappresentare il contrasto della sua America con quella di Donald Trump. O alla volontà cinese di proiettare forza, e non debolezza, sul piano interno e all'estero. La Cina ha ribadito, anche con canali ufficiali, che è disposta a «combattere fino alla fine», se è ciò che gli Stati Uniti vogliono. Il vero obiettivo cinese è che Trump torni sui suoi passi e, sotto la pressione dei mercati, degli alleati e di alcuni consiglieri, interrompa le azioni che colpiscono una relazione commerciale che vale centinaia di miliardi ed è cruciale per l'economia mondiale. Nella prospettiva di Pechino, un punto d'arrivo può essere anche un nuovo accordo, come quello firmato a gennaio 2020 da Trump con l'allora vice premier cinese, l'economista Liu He. Del resto, Trump ha spesso fatto intendere di voler siglare un nuovo grande accordo globale con la Cina, in cui mettere tutti i principali temi di discussione, dal fentanyl a TikTok, dall'intelligenza artificiale agli squilibri commerciali, e così dichiarare «vittoria».
La Cina pensa che la volontà di Trump di reindustrializzare gli Stati Uniti non possa andare al di là degli annunci di importanti investimenti: la verità è che la manifattura è fatta di filiere complesse e diversificate, con caratteristiche della forza lavoro e dell'organizzazione che gli Stati Uniti non possono più riprendere. I consumatori europei non compreranno più le automobili delle vecchie glorie di Detroit, e la concorrenza dei giganti cinesi come BYD e Xiaomi non può essere più arginata.
Un pericolo che la Cina considera è la realizzazione del cosiddetto «accordo di Mar-a-Lago», una vera e propria ristrutturazione dell'architettura economica e di sicurezza internazionale che potrebbe essere solo al primo capitolo. Nel progetto delineato dai consiglieri di Donald Trump, e in particolare da Stephen Miran, che presiede il Council of Economic Advisers alla Casa Bianca, i dazi generalizzati hanno lo scopo di trattare con altri Paesi manifatturieri per isolare la Cina. Nella guerra commerciale della prima amministrazione Trump, le catene del valore produttive hanno portato a una certa diversificazione dalla Cina, ma attraverso economie del Sud-est asiatico, come il Vietnam o la Malesia, o tramite il Messico. Le cinghie di trasmissione con la Cina non si sono affatto interrotte, e le aziende cinesi hanno continuato a guadagnare posizioni nelle varie catene del valore, o hanno resistito a duri provvedimenti statunitensi, come nel caso di Huawei. Invece, se il punto d'arrivo della guerra dei dazi fosse un vero e proprio isolamento della Cina, per Pechino il problema sarebbe ben più serio. La Cina ha infatti bisogno di mercati di riferimento per la sua grande capacità produttiva. Il suo mercato interno non basta.
Nel mondo del conflitto tra Stati Uniti e Cina, la verità è che i due contendenti avranno bisogno degli altri.
Washington non può pensare veramente a un futuro autarchico, ma nemmeno a una massiccia reindustrializzazione isolata, e dovrà collaborare con le altre potenze industriali. Allo stesso tempo, Pechino corteggerà a suo modo gli «amanti delusi» degli Stati Uniti, come gli europei, promettendo di portare ordine rispetto al caos di Trump, attraverso più strette relazioni commerciali.
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