Pensioni, il governo non cede alle pressioni dei sindacati: flessibilità solo col contributivo

Il punto di partenza è il maxi-debito pubblico, accumulato causa pandemia

Pensioni, il governo non cede alle pressioni dei sindacati: flessibilità solo col contributivo

Il punto di partenza è il maxi-debito pubblico, accumulato causa pandemia. Ieri la Banca d'Italia ha comunicato che a fine 2021 il debito delle amministrazioni pubbliche era pari a 2.678,4 miliardi di euro (+104,9 miliardi su fine 2020 dei quali 92,1 miliardi di aumento del fabbisogno). Con 400 miliardi di euro di titoli di Stato da collocare annualmente per finanziare questa voragine, parlare di flessibilità dei pensionamenti è comunque un azzardo.

In ogni caso, ieri governo e sindacati ci hanno provato e al ministero del Lavoro si è tenuto il tavolo tecnico sulla riforma pensionistica che dovrebbe partire dall'anno prossimo quando terminerà Quota 102. E, come al solito, ci si è trovati di fronte al solito muro contro muro, con la speranza che la prossima settimana si possa in qualche misura sciogliere l'impasse visto che il tavolo diventerà politico e, oltre al ministro Andrea Orlando, potrebbe partecipare anche un esponente del governo vicino al premier se non il premier stesso. La ricetta proposta, infatti, è quella sgradita ai rappresentanti dei lavoratori: l'ipotesi è consentire l'uscita con tre anni di anticipo rispetto all'età pensionabile (67 anni) previa rinuncia alla componente retributiva per coloro che hanno iniziato a lavorare prima del 1996. L'esecutivo sarebbe disponibile anche ad abbassare la quota di 2,8 volte l'assegno minimo come prerequisito per il pensionamento ed è pronto a ragionare su una sorta di pensione di garanzia per le persone che a 67 anni non hanno raggiunto un importo pari a 1,5 volte il minimo. Totale chiusura, invece, su «Quota 41», ossia la possibilità di pensionarsi con 41 anni di contributi come chiesto da Cgil, Cisl e Uil e come piacerebbe anche alla Lega.

«Il ricalcolo contributivo della pensione come avviene per Opzione donna è inaccettabile: si perde fino al 30% dell'assegno», ha dichiarato il segretario confederale della Cgil, Roberto Ghiselli, al termine dell'incontro sottolineando che l'esecutivo ha comunque «lasciato la discussione aperta sulle modalità di ricalcolo». Il sindacato, infatti, vorrebbe che in qualche modo i risparmi accumulati dai minori esborsi della previdenza pubblica negli ultimi anni fossero in qualche modo restituiti ai lavoratori. Una tesi sostenuta ancor più vivacemente dopo che ieri il Centro studi Itinerari previdenziali ha evidenziato nel proprio rapporto che nel 2020 l'Inps ha risparmiato in spesa per pensioni 1,1 miliardi a causa dell'eccesso di mortalità per Covid e fino al 2029 si avranno minori esborsi per 11,9 miliardi a causa dell'eccesso di mortalità degli over 65. C'è, tuttavia, un contraltare: la durata delle pensioni più remote ancora oggi vigenti è in media di quasi 46 anni nel settore privato e di 44 per il pubblico. Sono, infatti, 476.283 (423mila nel privato) gli assegni previdenziali pagati dall'Inps da 40 anni o più a persone andate in pensione nel lontano 1980 o ancora prima. Un monito fortissimo alle forze politiche e sociali che, a fronte di una delle più elevate aspettative di vita, continuano a proporre forme di anticipazioni, sostiene il centro studi presieduto da Alberto Brambilla. Dal 2022, ha osservato, il 90% delle persone in uscita dal lavoro andrà in pensione con il calcolo misto e in media il 70% dell'importo sarà calcolato con il contributivo.

«Chi deciderà di uscire a 64 anni - ha spiegato - dovrà tramutare quel 30% in contributivo». Secondo Brambilla, la perdita media «è del 3% l'anno e con tre anni di anticipo si perderebbe circa il 10% dell'importo che si avrebbe uscendo a 67 anni».

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