Il piano dei due Matteo uniti dalla furia dei pm

Il piano dei due Matteo uniti dalla furia dei pm

La miccia, il detonatore di quella sortita del tutto avulsa dallo storytelling salviniano, il comitato di salvezza nazionale, Matteo R. la individua in quella condizione che lo accomuna al Matteo S., cioè l'assedio delle procure (si parla di un ritorno in campo dei Pm di Milano sull'affaire Lega-Russia): non per nulla nell'elenco del leader del Carroccio sulle emergenze la riforma della giustizia è un argomento di primo piano. «Il problema - ha spiegato Renzi ieri nel salone di Palazzo Madama, prima del dibattito sulla fiducia sulla manovra di Bilancio - è che tutti hanno paura dei giudici. Poi certo Salvini avrebbe fatto bene ad intervenire nel dibattito della scorsa settimana sul tema giustizia-politica, ma ognuno fa la politica che vuole... Detto questo la formula di salvezza nazionale è molto interessante. In questo Paese c'è bisogno di un salto di qualità. In fondo l'idea di un Draghi premier il primo a lanciarla è stato il sottoscritto. Poi ci sono le contraddizioni leghiste: siamo passati dai pieni poteri estivi al governo di salvezza nazionale... dalla spallata al governo sul Mes al governo Draghi in una settiman... Certo sono contraddizioni. Quello che conta, però, è che tutti stanno prendendo atto del vuoto politico attuale. Di quella condizione della politica di cui aveva già orrore Bettino Craxi in quel discorso del '92, uno dei più visionari della storia parlamentare, in cui affrontò, trent'anni fa, temi attuali come l'esplosione dei flussi migratori o le contraddizioni di Maastricht. Ora il vuoto politico è ancora maggiore: Salvini contesta il Mes e poi lancia Draghi; i 5stelle non sanno che pesci prendere; e a noi tentano di ucciderci nella culla con le inchieste...».

Di questo probabilmente hanno parlato i due Mattei più volte nelle ultime settimane. Entrambi sono frequentatori in un Palazzo in cui ognuno parla con chiunque in ogni luogo della Capitale, istituzionale o no: il piddino Orlando con Giorgetti; Di Maio con Salvini; Zingaretti con Grillo. Nel caleidoscopio della politica italiana c'è addirittura il premier Conte che si fa fotografare con in mano Il cazzaro verde, il libro dedicato a Salvini da Andrea Scanzi. Per cui non c'è da meravigliarsi se quello di Matteo R. e Matteo S. è un comune sentire, un'insoddisfazione sul presente condita dalla sensazione di essere entrambi nel mirino della magistratura «interventista» (quella erede delle toghe rosse e quella che si rifà alla filosofia di Piercamillo Davigo) e dalla voglia di immaginare un futuro tutto da scrivere.
Più che di «piani» si tratta di congetture, di desideri corredati da esigenze tattiche. Ad entrambi fa comodo che ci sia un'alternativa all'attuale quadro politico: a Renzi serve per aumentare il potere contrattuale con l'attuale maggioranza; a Salvini per trovare un'alternativa alla speranza di una spallata che tarda a venire e che, come strategia, comincia a stancare. Tattica e bisogno di un'alternativa che magari maturerà, magari no. «Io - ha spiegato Salvini a Giorgia Meloni stile Jannacci - ho gettato un sasso nel campo di Agramante (l'espressione usata era più colorita, ndr) per vedere che succede. Per vedere l'effetto che fa». Già, dato che l'incursione sul Mes tra le file grilline ha fruttato troppo poco per determinare una crisi di governo (solo tre senatori 5stelle sono passati con il Carroccio), il leader leghista ha cambiato spartito, ha messo in campo lo schema Giorgetti. «Matteo deve decidere - ha spiegato quest'ultimo - se è più efficace la mia strategia o quella della spallata che non arriva mai».

In fondo siamo all'accademia della politica: non è la prima volta che un'opposizione impotente tenta di aprire un confronto con una maggioranza fragile per disarticolarla; o che chi è insoddisfatto di un governo che non lo premia, prova ad immaginare un equilibrio politico diverso. È già successo in passato, anche di recente. Federico D'Incà, ministro grillino per i rapporti con il Parlamento, sull'argomento parla come un libro stampato. «Ricordo - osserva - che quando Berlusconi e D'Alema, uno dall'opposizione e l'altro in maggioranza, lanciarono la bicamerale sulle Riforme istituzionali, alla fine non fecero le riforme, ma fecero fuori l'allora presidente del consiglio, Romano Prodi. L'importante è non cascarci». È la ragione per cui al premier la sortita salviniana sul comitato di salvezza nazionale ha fatto fischiare le orecchie, spingendolo addirittura a convocare un vertice sul futuro, ad immaginare un cronoprogramma per il governo, a minacciare l'addio se i leader della maggioranza non gli daranno delle garanzie. Conte ha giocato d'anticipo, puntando sull'appoggio incondizionato del Pd. «Voglio - è il suo leit motiv - risposte chiare».

Solo che il futuro del governo è legato, soprattutto, all'efficacia che dimostrerà nell'affrontare le emergenze che si moltiplicano ogni giorno. L'operazione di salvataggio della Banca popolare di Bari è l'ultima della serie. Ed è più complessa di ciò che sembra: a parte i 900 milioni già stanziati con decreto legge per salvare correntisti e dipendenti, la nuova crisi bancaria ha riportato sotto i riflettori le défaillance di Bankitalia nel ruolo di vigilanza, proprio alla vigilia della nomina del nuovo direttore generale. Si tratta di un vecchio cavallo di battaglia sia di Di Maio, sia di Salvini, sia di Renzi. «E già, siamo alle solite», ammette quest'ultimo. E, come in passato, si torna a parlare di una nuova commissione d'inchiesta sulle banche a cui si è candidato un grillino che ha il chiodo fisso della polemica con Bankitalia e, più in generale, con l'intero sistema creditizio italiano, Elio Lannutti. Una candidatura, ovviamente, non gradita al Pd, ma non solo. «Temono - accusa l'interessato - i segreti che io so su Ubi Banca, Bazoli, Bankitalia. Sono venti anni che mi occupo di queste cose. Ora stanno pensando di proporre per quel ruolo Carla Ruocco, che lascerà la presidenza della commissione Finanze della Camera ad un piddino. Ma io la mia candidatura non la ritiro. E ho già dato mandato al mio avvocato Antonio Di Pietro di querelare chi mi calunnia».

Ne vedremo sicuramente delle belle. Ultimo segnale di una maggioranza fragile e divisa. Ecco perché l'idea di «un governo vero, vero, vero», per usare l'espressione di Renzi, è un sogno che una politica «sbandata» continua a tenere nel cassetto.

E, magari, alla bisogna, a primavera, per salvare il Paese, chiamato da Salvini, suggerito da Renzi per quel «cambio di passo» agognato ancora ieri, e, magari con l'ok sottovoce pure di Zingaretti e Di Maio, Mario Draghi potrebbe anche essere tentato di lasciare l'eremo in Umbria dove si è rifugiato in compagnia dei suoi quattro alani dopo gli anni della Bce. «Vedrete - è la scommessa di Renzi - che si stuferà anche degli alani». E se proprio l'ex numero uno della Bce non sarà disponibile, si può sempre trovare uno che gli somigli.

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