Milano «Era tutto un sistema che procedeva per favori: che non avrebbero rilevanza penale se non fosse che per seguire tutto questo Mantovani ha sistematicamente strumentalizzato le funzioni pubbliche che andava a ricoprire: sottosegretario, assessore, sindaco». Alle undici di ieri mattina, dopo un processo durato oltre tre anni, il pubblico ministero Giovanni Polizzi conclude la sua requisitoria contro Mario Mantovani, ex senatore ed ex vicepresidente della Regione Lombardia. Per lui, il pm invoca una condanna pesante: sette anni e mezzo di carcere. A pene minori, chiede la condanna anche di tutti gli altri imputati: tra i quali spicca il nome di Massimo Garavaglia, leghista, oggi sottosegretario all'Economia nel governo Conte. Per lui la richiesta è di due anni di carcere per turbativa d'asta: una condanna che non farebbe scattare la decadenza dalla carica.
Mantovani è accusato di corruzione e concussione per una lunga serie di episodi che lo avrebbero coinvolto sia come assessore alla Salute della Regione che come sindaco di Albairate: e alle cariche politiche affiancava una fondazione attiva nell'assistenza e nella sanità. Non è accusato di avere intascato soldi ma di avere ottenuto vantaggi dalle pressioni che la sua carica gli consentiva. «Mantovani agisce attraverso i suoi collaboratori, l'entourage che lo chiama il Capo», dice il pm.
Al termine della requisitoria, Mantovani reagisce aspramente: «Oggi abbiamo ascoltato dalla voce del pubblico ministero richieste di condanna che non esito a definire grottesche. Ho ascoltato una sequela di accuse ferme a un teorema vecchio di quattro anni, come se nulla fosse successo in decine e decine di udienze, dove sono sfilati trenta testimoni dell'accusa che di fatto hanno smentito le tesi del pm. Hanno costruito un teorema indimostrabile.
Io ho sempre pensato che le aule dei tribunali servissero perché tutti ci mettessimo qualcosa per arrivare alla verità. Questo non è avvenuto perché siamo in un paese che non è civile. Ma sono molto fiducioso nei giudici».LF
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