Li vedi con le pance che ballonzolano, ricoperti da outfit improvvisati, il passo di chi fino a una settimana prendeva il Suv pure per andare in tinello. Stanno riempiendo l'Italia, sono i corridori del coronavirus. Non scappano dal contagio, che con quell'andatura li raggiungerebbe agevolmente, ma dalla noia dei «domiciliari».
La corsa all'aperto, infatti, è - dopo alcune incertezze interpretative del decreto «blocca-Italia» - una delle poche attività consentite, purché praticata in solitario e rispettando il distanziometro con gli altri runner. E chi non ha il cane da «pisciare», chi si è stancato di andare al supermercato, chi al lavoro non può andarci o non ce l'ha, ha come unica lima nella torta per evadere dalla moglie, dalla lavatrice rotta, dal pupo che frigna, improvvisarsi atleta degli altipiani, che poi alla fine in Etiopia c'è stato finora un solo caso di coronavirus.
In molti casi la pretestuosità dell'impresa è patente. Le persone si vestono da runner e poi passeggiano per la loro ora d'aria, e se qualcuno li ferma possono sempre dire che non ce la facevano più. Ma altre volte la buona volontà c'è, e il «tapascione» (termine che tra i runner abituali, quelli che stanno sotto i 5 minuti al chilometro, indica il corridore avventizio) ce la mette tutta per trasformare una necessità in opportunità.
I parchi sono stati chiusi e quindi gli atleti del virus li trovi ovunque, per le strade deserte, attorno alle recinzioni dei giardini, sulle piste ciclabili, sui lungofiume che non possono esser blindati.
Magari questa cosa alla fine ci renderà un popolo meno sedentario, e dopo che tutto questo sarà passato a qualcuno resterà attaccato il vizio di muoversi. Per ora l'idea è che tanto slancio sportivo sia solo un altro modo per prendere per i fondelli i divieti. Disobbedir correndo.
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