La grandeur è un qualcosa di tipicamente francese. Ha a che fare con una vocazione a cose nobilmente grandi, di cui rivestirsi come una armatura, e che affonda in un passato che quella vocazione trasforma in storia, meglio, mitologia, nazionale. Charles de Gaulle, che si trovò a incarnarla nelle ore più buie del Novecento, la sintetizzò in una formula vaga, ma efficace, «una certa idea della Francia», un continuum dove Giovanna d'Arco, il Re Sole, la Rivoluzione dell'89 e Napoleone, L'Impero coloniale e Verdun erano la sostanza laddove la catastrofe politico-militare del giugno'40, un Paese e un esercito liquefattisi come neve al sole davanti ai cingolati della Wermacht era un accidente.
Il Generale fu l'ultimo presidente- monarca di una Repubblica che avendo ghigliottinato due secoli prima la regalità, non ha fatto altro in quelli a seguire che rimpiangerla. Proprio perché teorico della grandeur nel momento della disfatta più umiliante, de Gaulle se la caricò poi sulle spalle facendosene, per così dire, garante: era lui la Francia, e viceversa. Di qui l'atomica, il no alla Nato, il «Québec libero», l'apertura alla Cina e il veto all'Inghilterra, la decolonizzazione. Era una grandeur retorica, immaginaria e immaginifica, aureolata e resa fintamente credibile dal carisma di chi aveva continuato a credere nella Francia quando la Francia aveva smesso di credere in se stessa, e questo spiega perché non necessitasse di pompe e orpelli diversi da quelli sempre esistiti, il Louvre, le Tuileries, l'Arco di Trionfo. Colombay, dove de Gaulle si ritirò per poi morirvi, era una modesta casa di campagna.
Tutto questo aiuta a capire perché i presidenti a lui succeduti hanno dovuto cercare carisma e grandeur fuori da loro stessi, nel bene come nel male: Pompidou si intestò il Beaubourg, Mitterrand la Grande Bibliotheque e la Piramide del Louvre, Chirac il museo di Quai Branly, Giscard i diamanti di Bokassa e Sarkosy Carla Bruni.
Adesso è la volta di Emmanuel Macron, il nuovo servizio di 1200 porcellane di Sèvres ordinato per lui dall'Eliseo, la piscina da costruire nel forte di Brégancon, su cui ironizza il Canard Enchainé, accusandolo di buttare via i soldi proprio mentre dichiara che lo Stato sociale costa troppo e non serve a niente. Oltretutto la polemica intorno a piscine&porcellane è scoppiata a ridosso della visita che il 26 giugno Macron farà al Papa e dove presumibilmente si parlerà di povertà e di migranti. Visita però legata anche al titolo che gli verrà conferito di protocanonico d'onore del capitolo lateranense, un'antica tradizione del 1604 che vide Enrico IV come suo primo predecessore e che ben si inserisce in quel concetto di grandeur da cui siamo partiti. Sotto questo profilo, Macron è un esempio da manuale, fin dal suo giuramento come presidente, solitario, notturno e con tanto di Inno alla gioia come accompagnamento. Nel tempo abbiamo visto le strette di mano con Trump e con i generali libici fatte passare per accordi politici, la corte serrata alla Merkel nel nome di un'improbabile diarchia europea, la polemica astiosa verso l'Italia.
Per una nazione in crisi come la Francia, dove il dissenso e il disagio sociale vengono scanditi a suon di scioperi, cortei e manifestazioni, e per una presidenza crollata nel gradimento dei sondaggi, la grandeur del resto non ha altra strada che la politica estera e Macron lo sa benissimo. Di suo ci aggiunge quella spocchia tipicamente francese, effetto del concetto stesso di grandeur, che rende i nostri cugini d'oltralpe spesso insopportabili e sempre ridicoli.
Gli manca però la lucidità e/o la sincerità di un Mitterrand, consapevole, già negli anni Ottanta, che i presidenti a venire sarebbero stati dei poveri funzionari d'affari, e non più degli statisti. Macron si agita e si comporta come fosse un presidente-monarca, ma non lo è, è solo un Kagemusha, ovvero la sua ombra.
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