L'incontro tra Donald Trump e Xi Jinping in Corea del Sud è uno degli appuntamenti più attesi del 2025. Sgombriamo subito il campo dall'illusione che strette di mano e scambi cordiali possano risolvere i problemi del mondo. Sono illusioni inutili. Ricordate Biden che nel 2023 mostra a San Francisco una foto del giovane Xi davanti al Golden Gate Bridge e scherza con lui? Non lo ricordate, perché non contava niente e non ha risolto niente.
Per comprendere la posta in gioco oggi, deridere gli atteggiamenti di Trump, come ormai dovrebbe essere chiaro, non è mai utile. In questa fase storica, è più interessante cercare di capire perché Trump faccia o dica alcune cose. Pensiamo, ad esempio, alla discussione sul suo terzo mandato, in teoria vietato, ma rilanciato da Steve Bannon e da lui stesso. Anche se l'ipotesi resta improbabile, Trump guarda caso ne parla proprio mentre si avvicina l'incontro con Xi. Perché? Vuole presentarsi non come un leader-yogurt, con la data di scadenza (come tutti i politici occidentali, nello sguardo cinese), ma come deal-maker che sa definire il panorama globale per tutto questo decennio.
I negoziatori di alto profilo di Pechino e degli Stati Uniti (i quali hanno schierato il peso massimo Scott Bessent) hanno raggiunto un consenso preliminare per evitare un'escalation di dazi e contro-dazi, che colpirebbe l'economia globale in modo insostenibile.
L'accordo finale con ogni probabilità includerà da parte cinese non solo la tregua di un anno sui controlli sulle esportazioni per le terre rare ma anche gli acquisti di soia statunitense, tema su cui c'è stata una triangolazione economica e politica con l'Argentina di Milei. La soluzione di TikTok resta una parziale vittoria cinese: l'app non sarà vietata e il fatto che la proprietà dell'azienda che opera negli Stati Uniti sia soprattutto di investitori americani non conta, visto che molti tra gli stessi investitori della casa madre cinese, ByteDance, sono americani. Nei prossimi giorni o nei prossimi mesi, torneranno senz'altro sul tavolo altri temi irrisolti: le esportazioni dei sistemi di intelligenza artificiale di Nvidia, l'antitrust cinese sulle aziende tecnologiche statunitensi, lo stato di Panama e di altri porti. Ovviamente, la questione più spinosa rimane Taiwan, su cui la Cina vorrebbe da Trump un linguaggio netto contro l'indipendenza, per sfruttarlo come base per le future discussioni. È improbabile che Trump compia un errore così plateale, ma non si sa mai.
In ogni caso, la rivalità è così profonda e i temi sul tavolo sono così tanti che la cautela è d'obbligo. Si pensi, anche in questi giorni, alla competizione su un'area cruciale come il Sud-Est asiatico. La Cina ha appena rafforzato i suoi legami economici con l'Asean, mentre Trump ha utilizzato la sua presenza nella regione proprio per contrastare l'influenza cinese: i vari accordi bilaterali hanno l'obiettivo di ridurre la dipendenza dalla Cina nelle filiere materiali e minerarie, in cui Pechino fa leva sulla sua forza nella trasformazione e raffinazione. Molti tra questi accordi sono memorandum non vincolanti, quindi andranno verificati nei fatti, in una regione dove la Cina resterà molto più presente e in cui anche l'Australia, per le sue caratteristiche geografiche e minerarie, avrà un ruolo significativo.
Nell'attuale direzione del mondo, l'interdipendenza commerciale e l'allargamento della sicurezza nazionale continueranno a convivere, con numerosi strattoni verso la separazione tecnologica. C'è la possibilità concreta di avere due ecosistemi paralleli, uno incentrato sugli standard americani e uno sulla galassia legata a Pechino.
La separazione di quella che una volta si chiamava "Chimerica" rimane costosissima, ma va considerata, per le imprese e gli Stati, una prospettiva concreta su cui pianificare gli investimenti e diversificare i rischi. Anche per questo, l'incontro tra Trump e Xi accompagnerà una tregua fragile, a cui seguiranno molte altre mosse e contromosse.