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"Pregate per lei...", il mondo sull'orlo del disastro

Minacce cinesi, impuntatura americana. Rischio di catastrofe

"Pregate per lei...", il mondo sull'orlo del disastro

Pregate. Pregate per lei e non solo. Ci sono giornate come queste in cui ti chiedi dove stia il confine, quel punto da non oltrepassare prima che tutto diventi buio. La visita a Taiwan di Nancy Pelosi, speaker del congresso Usa, viene letta dai cinesi come una provocazione. Non ha ancora messo piede sull'isola ma le reazioni della stampa vicina al governo di Pechino sono fuori misura. Hu Xijin, ex direttore del Global Times, scrive: «Lasciatela arrivare ma poi pregate per lei, auguratele un viaggio sereno e che non sia ricordata dalla storia come una peccatrice, come colei che ha dato il via a una escalation che trasformerà le frizioni militari in una guerra globale». Il clima che si respira nel Mar Cinese è questo e l'impressione è che stia diventando ogni giorno più caldo.

Non sono solo minacce personali. È il rumore di fondo di un dilemma geopolitico che non prevede una soluzione diplomatica, l'unica soluzione è che uno dei due colossi rinunci a giocare la partita. Se entrambi entrano in campo non solo lo scontro è inevitabile, ma spinge il confine delle possibilità fino all'apocalisse. È una sfida che non avrebbe limiti. Lo sa Washington e lo sa Pechino. Se si comincia può accadere di tutto. Una riflessione saggia, e quasi banale per la sua semplicità, è che sapendo a cosa si va incontro ci si metta a sedere e si dice: troviamo un compromesso. Non è affatto facile.

Per Xi Jinping il ritorno di Taiwan alla Cina è inevitabile. È la promessa irrinunciabile su cui si basa il suo prestigio politico e il suo potere nel partito comunista. Pechino non vuole credere alle parole di Joe Biden: «Difenderemo la repubblica di Taiwan. È un sacro impegno». Washington spera che la Cina non arrivi davvero a una soluzione non pacifica. Taipei, che non vuole morire comunista, non scommette sullo slogan «un Paese due sistemi». Ha visto troppo bene quello che sta accadendo a Hong Kong. I cinesi di Taiwan non vivo sotto un regime autoritario dalla fine degli anni '80 e non vogliono tornarci. Non negano l'esistenza della Repubblica Popolare Cinese, ma la considerano una terra vicina, non un'astratta «patria» alla quale devono inevitabilmente tornare.

È cambiata la prospettiva. C'è stato un tempo, forse un'illusione, quando i muri tra oriente e occidente sembravano scarnificarsi. Il confine sembrava meno pesante, quasi fosse solo una rete, con la possibilità di guardare oltre e ritrovare un cenno di intesa, uno sguardo, qualcosa per riconoscersi. Non è più così. All'orizzonte c'è solo un impero che si vuole mangiare una piccola repubblica, ricca e democratica, con il quasi monopolio della produzione di semi conduttori. Chi controlla Taiwan ha in mano un pezzo fondamentale dell'economia globale. Non giocare la partita per gli Stati Uniti significa ritornare a casa. È la rinuncia al ruolo di potenza. È una scelta costosa, che sposta l'asse della storia verso Est e, sì, potrebbe anche essere saggia, anche se nessuno sa dove si ferma l'espansione della Cina. La visita di Nancy Pelosi indica che per ora Washington non ha alcuna intenzione di abbandonare Taiwan. La soluzione, secondo Biden, resta quella indicata da tempo: l'isola che fu l'ultimo rifugio dei nazionalisti di Chiang Kai-shek è cinese, ma non può essere conquistata con le armi.

Va trovata, con calma, una soluzione pacifica e con garanzie precise, peraltro difficili da far rispettare. Quello che si chiede a Pechino è di guardare al futuro e di rispettare la loro pazienza millenaria. Solo che Xi Jinping ha fretta. Aspetta che gli Stati Uniti mostrino di avere paura e continuano a leggere la guerra in Ucraina come un banco di prova.

Siamo in pratica alla «corsa del coniglio», quella raccontata in Gioventù bruciata: chi sarà il primo a buttarsi dall'auto e a fare la figura del vigliacco? Chi finirà nel burrone? Se va davvero male, tutti.

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