Non ci si può fidare neanche delle impronte

Un mito che rischia di crollare

Non ci si può fidare neanche delle impronte

Muri di libri polizieschi distrutti, decenni di film bruciati, guanti di ogni materiale indossati invano, decine di armamentari tecnologici improvvisamente in pericolo. Tutto buttato giù con la punta di un dito. Le impronte digitali non sono un unicum, non ci punzonano ora e per sempre come e più di un codice genetico. Lo sostengono alcuni scienziati americani, secondo cui non esiste alcuna prova che quella combinazione di creste e golfi scolpiti sull'ultima falange delle nostre dita, che in gergo scientifico si chiamano dermatoglifi, siano davvero una password affidabile per la nostra identità. E chissà che ora qualche ergastolano condannato per le impronte lasciate sulla scena del crimine non torni a proclamarsi innocente gridando all'errore indiziario e non chieda la revisione del processo.

Eppure da un secolo tutte le procedure di sicurezza si basavano sull'assunto considerato inattaccabile che sulle nostre dita risiedesse il nostro codice a barre. Un codice che non potevamo modificare, nascondere, alterare, al massimo cancellare con un'amputazione. Le impronte digitali venivano prese, sporcandoti di nero le falangi, in tutte le circostanze in cui dovevi dimostrare di essere tu e nessun altro. Al servizio di leva, in una stazione dei carabinieri, in tribunale. Ne eravamo talmente convinti da utilizzare la punta delle dita come estremo strumento di privacy, affidandole lo sblocco di device elettronici o l'accesso a piattaforme super-riservate.

Ma era un falso mito. Non esistono evidenze sufficienti per affermare che le impronte digitali sono uniche per ciascun individuo. Lo afferma una fonte autorevole (purché siano straniere le fonti sono sempre autorevoli) come l'Associazione americana per l'avanzamento delle scienze (Aaas), in un rapporto redatto dai suoi esperti di scienze forensi. Il documento snocciola le tecniche con cui vengono analizzate e confrontate le impronte digitali latenti, ossia le impronte invisibili lasciate sulle superfici dai polpastrelli e composte da disegni precisi finora considerati unici. Finora. Secondo gli scienziati a stelle e a strisce non esiste un metodo univoco per associare un corredo di impronte a un unico individuo. La conferma di un sospetto che già da tempo galleggiava nella comunità scientifica. «L'analisi delle impronte digitali è uno dei metodi forensi più utilizzati per l'identificazione - dice Joseph Kadane, professore di statistica e scienze sociali dell'università americana Carnegie Mellon - e i sistemi che le analizzano servono a identificare la persona che ha lasciato il suo segno sulla scena del crimine». Ma non esiste «un metodo scientifico per stimare il numero di persone che condividono le caratteristiche di una impronta digitale e inoltre non si può escludere l'errore umano durante il confronto». Quindi «le impronte digitali non possono essere associate a un unico individuo con una precisione del 100 per cento».

Quindi, tutto da buttare? Millenni di ditate sbagliate, a partire dai Babilonesi che usavano le impronte nei documenti ufficiali come firma? Non del tutto. Basterebbe migliorare le capacità dei sistemi di confronto automatico, intensificando la ricerca in questo campo. Per cominciare, le impronte digitali consentono di scremare il grosso in una ricerca, «scartando rapidamente migliaia di impronte digitali che non hanno caratteristiche simili a quelle in esame». Mo non consentono «di abbinare un'impronta digitale rilevata sulla scena di un crimine a quella raccolta dalle autorità da un sospettato», né «possono determinare se un confronto sia valido». Insomma, le impronte sarebbero perfette per escludere alcuni sospetti ma non per dare un nome e un cognome certo all'assassino.

Le impronte digitali sono state utilizzate sin dall'antichità, ma è solo alla fine dell'Ottocento che furono messe a sistema come strumento di identificazione. Fu lo scozzese Henry Faulds, medico e missionario in Giappone, in un articolo pubblicato nel 1880 su una rivista scientifica a suggerire le impronte digitale come metodo per l'individuazione dei criminali.

Il primo malvivente incastrato con certezza dall'esame delle impronte digitali fu una donna, l'argentina Francisca Rojas, una ventisettenne che avevo ucciso i figli e aveva provato a inscenare una aggressione, ma venne scoperta grazie alla traccia di un dito insanguinato. Il suo? A questo punto non è detto.

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