Uccisa da un paziente nel centro di salute mentale dove lavorava perché, per risparmiare sul budget, sarebbe stato sottovalutato il rischio di aggressioni al personale. Era il settembre del 2013 quando la psichiatra Paola Labriola, 57 anni, venne accoltellata nella struttura che si trova nel quartiere Libertà di Bari. Cinquantasette coltellate che non le hanno lasciato scampo. Per la sua morte, ad aprile, è stato condannato l'ex direttore generale della Asl del capoluogo pugliese, Domenico Colasanto, a 3 anni e 6 mesi di reclusione, perché ritenuto responsabile del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Ora nelle motivazioni della sentenza i giudici puntano il dito contro i vertici della Asl, spiegando come il non aver garantito la sicurezza di un centro ad alto rischio come quello di via Tenente Casale, per mere questioni economiche, abbia di fatto consentito il barbaro omicidio della dottoressa. Colasanto, in particolare, non avrebbe redatto il documento di valutazione dei rischi del centro di salute mentale e non avrebbe adottato adeguate misure di prevenzione. «Vi è stata una sottovalutazione del rischio di aggressioni al personale - scrivono i giudici del Tribunale di Bari - sia per l'adesione alle teorie basagliane contrarie alla militarizzazione dei centri di salute mentale, sia per l'impostazione economicistica delle funzioni della sanità, piegate alle esigenze del budget, che denota la principale preoccupazione di molti manager pubblici della sanità, ossia l'equilibrio di bilancio, piuttosto che la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori». Se fossero state prese le cautele previste dalla legge, osservano i giudici, Paola Labriola sarebbe ancora viva. La sua morte, insomma, poteva essere evitata. Invece il 4 settembre del 2013 il suo killer, Vincenzo Poliseno, che sta scontando una condanna definitiva a 30 anni di reclusione, è riuscito a raggiungere lo studio della psichiatra con una lama da cucina di 12 centimetri e ad ucciderla senza che nessuno dei presenti potesse fare nulla per fermarlo e senza che la vittima potesse avere vie di fuga.
Una tragedia, si legge nella sentenza, favorita dalle condizioni di totale insicurezza in cui versava da tempo la struttura. Nella stanza dell'omicidio non c'erano dispositivi sonori di allarme, il personale era tutto femminile, il videocitofono all'ingresso non era funzionante e la porta era apribile dall'esterno con una semplice spinta.
Eppure, nonostante in passato ci fossero stati altri episodi di aggressione e minacce al personale, per i quali era stato chiesto invano un adeguato servizio di vigilanza, non era stato fatto nulla per garantire una maggiore sicurezza della struttura. I giudici stigmatizzano anche il comportamento processuale dell'ex direttore generale, «che non ha inteso rivolgere parole di scusa per i famigliari delle vittime, né offrire alcun risarcimento, sia pure simbolico».
Motivo per il quale gli sono state negate le attenuanti generiche. Durante il processo era stato condannato a 3 anni anche l'ex funzionario Asl Alberto Gallo per la compilazione di un falso documento di valutazione dei rischi.
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