Il pugno degli ayatollah. In cella il papà di Mahsa e spari sui manifestanti

Proteste di piazza sedate con la violenza. Arrestato e rilasciato Amjad Amini. Retata del regime in Kurdistan

Il pugno degli ayatollah. In cella il papà di Mahsa e spari sui manifestanti
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La rivoluzione iraniana contro gli Ayatollah non è finita. Ieri centinaia di manifestanti hanno reso omaggio a Mahsa Amini, la loro eroina morta un anno fa, arrestata dalla polizia morale perché non indossava in maniera corretta il velo e picchiata a morte dagli agenti. Mahsa rimane il simbolo della lotta verso la libertà per tutte le donne di questo Paese. I giovani per strada hanno scandito slogan come «Morte al dittatore!» e la frase simbolo «Donna, Vita, Libertà!». La tragica fine della 22enne studentessa curda è stata la miccia di una massiccia protesta antigovernativa, che forse è la più importante dalla rivoluzione khomeinista del 1979. In un anno sono state quasi 600 le vittime della repressione e migliaia gli arresti. Il padre di Mahsa ha sempre affermato che sua figlia è deceduta in un centro di detenzione della polizia morale presa a botte senza alcuna pietà. Mentre il governo ha insistito sul fatto che sia morta per una malattia neurologica preesistente. Tutto il Kurdistan iraniano ieri è stato presidiato dai pasdaran in motocicletta, i negozi erano chiusi, migliaia le telecamere di videosorveglianza. Ci sono stati arresti di massa anche a Marivan e Sanandaj e spari a Teheran da parte della polizia sui manifestanti radunati attorno alla simbolica Piazza Azadi, in persiano «libertà», e l'università, proteste anche a Karaj. Gli agenti hanno pure impedito l'accesso ai cimiteri dove sono sepolti i dimostranti uccisi. Gli elicotteri hanno sorvolato Saqqez, la città natale di Mahsa e internet è stato interrotto.

Ma il pugno duro dei pasdaran ancora non si placa. Anche il padre della ragazza, Amjad Amini, è stato messo agli arresti domiciliari, fermato mentre lasciava la sua abitazione a Saqqez, presidiata dagli agenti. Nei giorni scorsi, Amjad, era stato convocato per almeno quattro volte dalle forze di sicurezza che gli hanno intimato di non rilasciare interviste e dichiarazioni e di non tenere cerimonie per la figlia nel giorno del primo anniversario della morte altrimenti sarebbe stato arrestato anche suo figlio Ashkan. Le intimidazioni nei confronti della famiglia Amini erano già iniziate da tempo. Uno degli zii di Mahsa, Safa Aeli, è stato arrestato il 5 settembre ed è tuttora in custodia. Ad agosto anche l'avvocato della famiglia, Saleh Nikbakht, è stato accusato di «propaganda contro il sistema» e rischia una pena da uno a tre anni di carcere.

Ciò però non basta a fermare l'onda rivoluzionaria. Ieri sette prigioniere politiche hanno inscenato una protesta nel famigerato carcere di Evin a Teheran e bruciato i loro hijab. «In questo unico spazio possibile, Evin, io e le mie compagne alziamo la voce e gridiamo: Donna, vita, libertà», ha scritto l'attivista Narges Mohammadi. «L'uccisione e l'esecuzione della pena capitale per alcuni giovani della nostra terra, come l'incarcerazione e la tortura dei manifestanti sono ferite sui nostri corpi e sulle nostre anime, ma sono anche il motivo per continuare la lotta fino alla vittoria», hanno scritto poi le donne in un comunicato.

Ma il pugno duro del regime si è accanito anche contro altri simboli delle rivolte. Come ad esempio la tomba di Nina Shakarami, la 16enne morta durante le proteste dello scorso anno a Teheran e, secondo la famiglia e gli attivisti, uccisa dagli stessi agenti. Il suo luogo di sepoltura è stato profanato dalle forze di sicurezza: «Hanno danneggiato la tomba, colpito gli alberi circostanti e deturpato il posto con vernice nera.

Inoltre, hanno bloccato tutte le strade che conducono lì», ha raccontato l'attivista Barbad Golshiri. La madre di Mahsa ha voluto ringraziare tutti coloro che hanno inviato «messaggi di amore e conforto ai nostri cuori addolorati».

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