Mosca. «Non è un'occupazione» - spiegava alle 05.51 di stamattina il presidente russo Vladimir Putin. Ma solo qualche ora più tardi quella che lui definiva «operazione militare speciale» ne assumeva tutto l'aspetto. Il dispiegamento di carri, mezzi e truppe russe entrati in Ucraina dalla Bielorussia, dalla Crimea e dalla direttrice che collega il confine russo alla città di Kharkov ha un chiaro ed evidente obbiettivo. Punta a chiudere in una morsa Kiev, separarla dalla costa orientale ed impedire qualsiasi collegamento logistico con le frontiere di Polonia, Slovacchia,Ungheria e Romania. Frontiere da cui la Nato può far arrivare armi e rifornimenti destinati alle forze insurrezionali capace di resistere all'invasione. Ma allora perchè negare la volontà di occupare? Semplice, perchè il vero obbiettivo di Zar Vladimir è più complesso e si cela dietro l'asserita necessità di «denazificare» il paese. Quel termine è chiaramente un'iperbole. Se si escludono poche centinaia di fanatici delle repubbliche Baltiche arruolatisi nel Battaglione Azov per combattere i filo russi del Donbass i neo-nazisti rappresentano il problema meno rilevante per Mosca. Ma Putin ha le sue buone ragioni. Introducendo quel termine intende paragonare il presidente Volodymyr Zelenskyy e il suo governo ai traditori ucraini che nella Seconda Guerra mondiale si arruolarono tra le fila del Terzo Reich. E per i traditori, ieri come oggi, non c'è spazio. Ed allora ecco spuntare il vero obbiettivo. «Denazificare» nell'accezione usata ieri dal Cremlino equivale a decapitare un esecutivo macchiatosi di autentico tradimento quando s'è schierato con gli Stati Uniti invocando l'entrata nella Nato. Ma decapitare l'attuale governo - sostituendolo con un esecutivo provvisorio scelto tra le fila dei gruppi filo-russi - è anche il modo migliore per travestire l'occupazione da «operazione militare speciale». Un termine che sottende l'intenzione di ritirare rapidamente le truppe sostituendole con una forza fedele al nuovo esecutivo provvisorio. Ma questo è il passaggio più rischioso per il Cremlino. Un eventuale capitolazione di Kiev entro le prossime 72 ore non esclude infatti focolai insurrezionali, alimentati dalla stessa Nato, capaci di trasformare il paese in un nuovo Afghanistan.
In questa prospettiva mantenere il controllo di una nazione grande due volte l'Italia può diventare un'impresa molto complessa. Soprattutto se un pesante bilancio di sangue rischia di alienarti non solo il consenso delle popolazioni occupate, ma anche quello dei tantissimi cittadini russi che considerano gli ucraini una popolazione sorella. Dunque ecco l'imbuto di Putin. Da una parte ha l'impellente necessità di ritirare in fretta le proprie truppe per non trasformare l'operazione militare speciale in una evidente e sanguinosa occupazione. Dall'altra quella di insediare un governo amico e mettere insieme un esercito alleato capaci di reggere il Paese al proprio posto. Un equazione complessa e zeppa d'incognite.
Non a caso la fine del discorso con cui il presidente russo ha concluso la presentazione dell'intervento militare contiene una doppia minaccia. La prima è quel «deponete le armi» rivolto ai cittadini e ai militari di Kiev. Quel monito fa comprendere quanto importante sia per il Cremlino arrivare ad una soluzione rapida ed indolore dell'intervento. All'invito rivolto a forze armate e popolazione civile s'aggiunge però un avvertimento assai inquietante. Quel «siamo pronti a tutto» con cui ha Putin ha chiuso il suo discorso è chiaramente rivolto a prevenire eventuali interferenze dell'Europa e degli Stati Uniti.
Un monito che contraddice le abitudini passate di un presidente russo sempre propenso ad alternare atti di forza e iniziative diplomatiche. Un presidente che stavolta non sembra porre più limiti nè a se stesso, né alla propria potenza bellica.
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