Putin vuole schiacciare ogni rivolta. Asse con Pechino per restare al potere

Il padre padrone Nazarbayev lascia il Paese: lo zar ossessionato dai complotti, è deciso a fare piazza pulita. Con ogni mezzo...

Putin vuole schiacciare ogni rivolta. Asse con Pechino per restare al potere

«Shal, ket», ossia «Vattene, vecchio». Questo slogan, scandito con rabbia dai manifestanti kazachi all'indirizzo dell'ottantunenne padre-padrone del Paese Nursultan Nazarbayev, sintetizza perfettamente le ragioni che hanno spinto Vladimir Putin a inviare in Kazakistan tremila teste di cuoio a puntellare il regime. Nazarbayev, che rimaneva al vertice del potere pur dopo averne ceduto tre anni fa le redini operative al fedele Kassim-Jokart Tokayev, ha abbandonato ieri il Paese e dal suo dorato esilio di Dubai farà verosimilmente da parafulmine alla dilagante collera popolare; ma il grido «vattene vecchio»0 riecheggia quelli simili gridati per mesi dalle folle ucraine e bielorusse contro i rispettivi uomini forti filorussi, ed è quello che Putin (ormai prossimo ai 70 anni) teme di sentir urlare un giorno al suo indirizzo nelle piazze delle città russe.

Il leader del Cremlino, dunque, si preoccupa in realtà per il suo stesso potere. É ossessionato dall'idea che i nemici occidentali vogliano la sua pelle, e si muove con la massima decisione per garantirsi dalla minaccia di un'aggressione straniera che esiste in realtà solo nei suoi incubi. Si rifiuta di considerare con rispetto il fattore opinione pubblica e vede ovunque, nel «vicino estero» dell'ex Urss, soltanto complotti orchestrati a Washington per far cadere i regimi suoi alleati e portarli nel campo filoccidentale. È il caso anche di quanto sta accadendo in queste ore nel Kazakistan, dove ha spedito a guidare il contingente militare destinato a far piazza pulita dei rivoltosi quel generale Serdyukov che già orchestrò operazioni aerotrasportate in Crimea e in Siria. Lontano da testimoni sgraditi, con internet spento e licenza di uccidere i «terroristi» in nome di Tokayev, Putin non si fermerà finché non avrà schiacciato la ribellione. Che, come ormai si è ben capito, ha molto più a che fare con l'insofferenza popolare verso un regime corrotto e oppressivo che con i prezzi del carburante.

La crisi in Kazakistan è però più complessa. L'immenso Paese centroasiatico, che condivide con la Russia ottomila chilometri di frontiera nella steppa, non è solo strategico per la sua posizione geografica: è anche uno scrigno di materie prime preziosissime, dal gas al petrolio fino all'uranio di cui è il primo produttore mondiale. Vi risiedono, inoltre, quattro milioni di russi che convivono con 15 milioni di kazachi e di altre etnie. Putin deve dunque muoversi, per garantire i suoi interessi, con decisione ma anche con una certa cautela, e questo per almeno due ragioni. Da una parte, perché l'apertura di un potenziale secondo fronte militare kazaco proprio mentre il suo esercito è impegnato a premere sulle frontiere ucraine metterebbe sotto estremo stress le sue forze armate. Dall'altra, per il rischio che se le operazioni «anti terrorismo» in Kazakistan si dovessero trasformare in un'occupazione militare questo possa alimentare, anche in forma violenta, il nazionalismo locale contro i russi: una ricaduta pericolosissima anche per la popolarità di Putin in patria, già in caduta libera.

Non va infine dimenticato il fattore Cina.

Il Kazakistan confina anche con il Paese di Xi Jinping, che come Putin non vuole instabilità ai suoi confini e si è già complimentato con il macellaio Tokayev in perfetto stile Tienanmen - per il suo «alto senso di responsabilità politica». Queste rivolte ai confini dell'impero spingono sempre più Xi e Putin l'uno nelle braccia dell'altro.

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