Presidente Carlo Sangalli, lei oggi è a capo di Confcommercio e della Camera di commercio di Milano, ma la sua è una carriera politica di lungo corso che le ha consentito di conoscere Andreotti. Domani il Divo Giulio avrebbe compiuto cent'anni, che uomo era?
«Mi piace immaginare il suo sorriso sottile di fronte a questa domanda. E la sua rassicurazione sul fatto che avrebbe risposto lui, direttamente, a cento anni suonati. Andreotti era uno di quegli uomini rari nei quali vivida intelligenza, potere, straordinaria abilità politica e successi si accompagnavano a gentilezza d'animo, ironia folgorante, rispetto e infinita capacità di ascolto.
Cosa direbbe del mondo di oggi?
«Credo che sarebbe preoccupato e nello stesso tempo affascinato dalla velocità dei cambiamenti socio-economici e dai progressi delle nuove tecnologie».
Preoccupato?
«Preoccupato, ma saprebbe coglierne molto bene le opportunità».
E della politica di oggi?
«Superato rapidamente lo sconcerto, si metterebbe subito al lavoro per rilanciare un progetto democristianamente innovativo».
Cosa manca oggi?
«Ci manca la sua visione, la sua capacità di cucire più che di strappare. La sua pazienza e il suo equilibrio».
Fu lui a nominarla sottosegretario al Turismo e allo Spettacolo, cosa ricorda di quei giorni?
«Era il terzo Governo Andreotti del 1976. Anni duri e difficili sotto la cappa del terrorismo e delle tensioni internazionali. Da giovane sottosegretario alle prime armi mi colpivano la sua capacità di lavoro, la sua preparazione e la sua attenzione anche ai dettagli. Oltre, naturalmente, all'autocontrollo proverbiale».
Un ricordo personale?
«Da giovanissimo dovevo intervenire a un congresso della Dc come delegato della corrente Primavera di Andreotti. Quando arrivò il mio turno per parlare era quasi mezzanotte. La sala era praticamente vuota e vuoto il palco delle autorità. Tranne lui. Andreotti aveva aspettato fino alla fine solo per sentire un ragazzo della sua Primavera».
Un garbo che sembra di altri tempi in una politica sempre più urlata e soprattutto sempre più social.
«Andreotti lo faceva non soltanto per cortesia. Era attento, curioso e voleva sempre approfondire. E spesso il giorno dopo ti scriveva le sue valutazioni. Anche se l'intervento era quello, trascurabile, di un giovane che muoveva i primi passi in politica».
Andreotti era lo stereotipo del romano, cosa pensava di Milano?
«Veniva spesso a Milano e lo faceva volentieri. Sentiva che nella nostra città inquieta si elaboravano nuove idee, nuove tendenze e qualche volta si anticipava il futuro».
Era meglio la politica di quei tempi e di quegli uomini o il presente?
«Andreotti, che era anche pragmatico, penso avrebbe suggerito di rispettare e prendere spunto da quello che di meglio è stato fatto ai suoi tempi. Senza nostalgie. Con la consapevolezza che la realtà dei risultati quotidiani è quella che conta per dare dignità al passato e costruire il futuro».
Tra le tante cose gli toccarono anche accuse infamanti legate alla mafia. Come affrontò le sue vicende processuali?
«Coerente con la sua indole, si difese strenuamente da accuse micidiali, sempre senza rancore e senza rispondere con altre accuse. Ricordo che dopo un'arringa molto dura di un pm contro di lui, Andreotti si alzò per stringergli la mano».
Furono momenti complicati per lui e di grandi dubbi per il Paese.
«Fu un calvario che sopportò per anni fino alla sua assoluzione, dando forse la prova più importante delle sue qualità umane fuori dall'ordinario».
Una virtù e un difetto di Andreotti?
«L'ascolto attento del prossimo. Il difetto? Il tifo calcistico. Era romanista ma, anche in questo caso, capace di tendere la mano agli avversari laziali».
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