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Quando i dem facevano le barricate per aumentare i compensi pubblici

Il Pd strepita contro lo stop al tetto per la società che lavorerà a Messina. Ma si batteva per superare il limite di 240mila euro

Quando i dem facevano le barricate per aumentare i compensi pubblici

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«Vergogna», «scandalo», «regalie di Salvini». Il Pd si è particolarmente indignato per la bozza del decreto «Asset e investimenti» - che andrà in Consiglio dei ministri oggi - con la quale si deroga al tetto fissato a 240mila euro per gli stipendi della società Stretto di Messina Spa. In attesa di capire se la decisione del governo, fa sorridere assistere a proteste di esponenti di un Pd che, in tempi non sospetti, fece di tutto per attuare quella stessa cancellazione che ora invece critica.

La regolamentazione dei compensi entrò ufficialmente in vigore all'inizio del governo Renzi. Eppure, proprio all'interno del suo movimento politico, qualcuno volle subito mettergli i bastoni tra le ruote. Fu il caso dell'allora sindaco di Bologna, Virginio Merola: nel 2014 l'attuale deputato del Pd diede l'alt al taglio dello stipendio di Tomaso Tommasi di Vignano, ex presidente della multiutility Hera, che guadagnava 475mila euro all'anno. Per giustificare la propria posizione contro l'odg presentato dal gruppo dem in Consiglio comunale, Merola dichiarò all'epoca: «Si può fare demagogia su tutto, ma francamente credo che rispetto anche ai risultati che si sono ottenuti, il management aziendale di Hera sia il più sobrio in Italia ed anche uno dei più efficaci».

Non fu da meno fu il «capolavoro» politico tutto di sinistra nell'agosto 2015. Undici mesi prima l'ufficio di presidenza di Montecitorio aveva adottato il tetto degli stipendi massimi a 240mila euro. Fu in particolare la vicepresidente Marina Sereni (Pd) a voler fare ancora di più: colpì non solo i funzionari di alto livello come i consiglieri parlamentari, ma stabilì anche dei «sottotetti» per centralinisti, addetti alla buvette, commessi d'aula e documentaristi. I dipendenti che si sentirono danneggiati dalla riforma fecero ricorso alla «commissione giurisdizionale per il personale» che respinse il taglio salariale dei funzionari della Camera. Francesco Bonifazi, Dario Ginefra e Fulvio Bonavitacola (tutti del Pd all'epoca) furono gli artefici di quella scelta. Una decisione, quindi, di deputati Pd contro una norma voluta dallo stesso Pd e adottata con la spinta propulsiva di un vicepresidente Pd.

L'ultimo blitz su questo punto avvenne in piena campagna per le elezioni politiche dello scorso 25 settembre: anche qua il Pd andò completamente in tilt. Da una parte c'erano i capigruppo Debora Serracchiani e Simona Malpezzi che dichiararono di non condividere la cancellazione del «tetto dei 240mila euro agli stipendi di una parte della dirigenza apicale della pubblica amministrazione». Dall'altra, l'emendamento al decreto Aiuti bis che proponeva esattamente quell'eliminazione era appena stato votato nelle Commissioni di Bilancio e Finanze anche dal Partito Democratico. Un'ulteriore dimostrazione del fatto che a sinistra quella norma non è stata sempre ben vista.

Ma adesso che è il centrodestra a proporne la soppressione, qualche dem si scandalizza ipocritamente.

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