Cronache

Quando i razzisti sono cinesi: "Sei italiano? Non ti do lavoro"

Abbiamo provato a chiedere un'occupazione agli imprenditori orientali che vivono nel nostro Paese. Ma nessuno si è mostrato disponibile

Quando i razzisti sono cinesi: "Sei italiano? Non ti do lavoro"

Ho provato a farmi assumere. Dai cinesi. Sì, dai cinesi, che c'è di strano? Vivono, lavorano e pagano le tasse (si spera) qui in Italia. In tempi di crisi, meglio non disdegnare nulla: se c'è lavoro, è giusto acchiapparlo al volo, non importa se il tuo titolare è di Busto Garolfo o arriva dalla Giamaica. Ma ho scoperto che ai cinesi da dove vieni importa eccome: se sei italiano, non c'è posto per te.

È una discriminazione strisciante che ho imparato ad avvertire dagli sguardi interrogativi, da come fissano un punto imprecisato per trovare una risposta che non vuole essere scortese ma nemmeno amichevole, dal dondolare nevrotico della testa. Siamo a Milano, qui abbiamo ripetuto l'esperimento già intrapreso dai colleghi genovesi del Secolo XIX .

Via Paolo Sarpi, Chinatown: su questa strada elegante e chiusa al traffico, i negozi gestiti da italiani si contano sulle dita di una mano. È tutto un proliferare di insegne in ideogrammi, di lanterne e oggetti caratteristici. Decine e decine di negozi. E altre decine. E altre ancora.

La mia richiesta non deve essere molto comune. Anzi, per niente: la maggior parte di loro mi guarda enigmatica, si chiede perché mai un italiano si presenta in quelle vesti da un cinese. C'è una barriera invisibile che non si può abbattere: tu, italiano, sei il benvenuto solo da cliente. Non c'è nessun modo di stare tutti dalla stessa parte. Molti sorridono imbarazzati, come se la mia proposta celasse un qualcosa di sconcio. C'è chi invece cerca di congedarmi in fretta e furia, o indirizzandomi al negozio da cui ero appena uscito, o propinandomi indicazioni dal sapore di supercazzola: «Andate avanti a destra dopo semaforo».

Molti li trovo in pausa pranzo: cibo cinese, è la regola. «Cerco lavoro, magari qui avete bisogno di una mano…». In un negozio c'è un tipo seduto che mi squadra di tanto in tanto mentre parlo: non apre nemmeno bocca, si limita a scuotere la testa. È il suo modo di darmi il benservito. Proseguo, via Sarpi scorre sotto le mie scarpe: entro in un negozio di abbigliamento arioso. Ma nemmeno qui hanno bisogno di me: in compenso guadagno un'occhiata compassionevole di un cliente italiano. Più avanti, in una bigiotteria e in una trattoria mi dicono che assumono solo cinesi per comodità linguistica. Qualcuno mi lascia un bigliettino per inviare il curriculum, ma sembra più un modo per disfarsi della mia presenza. Da un'altra parte, in mezzo a otto cinesi, i miei interlocutori si pietrificano. È una scena da film thriller, c'è quasi tensione: solo che non si capisce bene chi impugna la pistola. Mi sento dannatamente fuori luogo, proprio nel cuore di Milano.

Però non mi arrendo: anzi, mi fingo esperto in riparazione di cellulari e computer. Ma nemmeno con la raccomandazione di Bill Gates riusciresti a quagliare qualcosa.

E allora passo ai negozi di scarpe, chissà, magari il mio 46 di piede diventa un ottimo requisito. Macché, non appena la signora che ho di fronte capisce cosa voglio dire, distoglie lo sguardo da me e passa alle sue cose. Forse barista? Proviamo. «Deve chiedere al capo». «Va bene, chiediamoglielo». «È in Cina. Ma non ci serve nessuno». «Ma se un minuto fa non ne era sicura…». La ragazza perde il controllo, dice che non vuole più parlare con me e inizia a sproloquiare in mandarino. Tutte frasi gentili, I suppose.

Anche spostandosi di zona, in via Padova, raccolgo solo «no». Provo da un parrucchiere, ma la ragazza mi piazza un «parlo poco italiano» e si trincera dietro il silenzio. C'è una signora italiana a farsi fare la piega, le tocca consolarmi: «Guardi che io qua a lavorare ho visto solo cinesi…». In un negozio di vestiario il venditore mi guarda a metà tra l'atterrito e lo scioccato, come se la mia richiesta avesse infranto chissà quale tabù millenario. I cinesi con i cinesi, e stop. Bell'esempio di integrazione. Da qualche parte me lo spiattellano pure in faccia «qui solo cinesi», in un bar le due ragazze dietro il bancone scoppiano a ridere.

Così ho imparato che proporsi da italiano in un negozio cinese desta o scandalo o derisione. Alla fine qualcuno mi dice sì: un ottico che ha bisogno di aiutanti e a cui non importa se non sei cinese. Poi mi confida che è nato a Milano e che si sente italiano.

Come non detto.

 

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