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Quando Montanelli disse no al seggio al Senato. "Sono da 60 anni un giornalista indipendente"

Armaroli nel suo nuovo saggio ricostruisce il gran rifiuto. E cita la lettera che il direttore del "Giornale" inviò a Cossiga: "Sarei onorato, ma rinunzia, ti prego..."

Quando Montanelli disse no al seggio al Senato. "Sono da 60 anni un giornalista indipendente"

In occasione del ventesimo anniversario della morte, avvenuta a Milano il 22 luglio 2001, sono fiorite diverse ipotesi sul gran rifiuto del Celestino V fucecchiese. Così Sergio Romano afferma: «Alla fine del libro il lettore comprenderà perché Montanelli rifiutò il seggio di senatore a vita che Francesco Cossiga gli offrì durante la sua presidenza. Perché rinunciare alla propria tribuna per accettarne una che apparteneva ad altri 320 colleghi?». Mentre Ferruccio de Bortoli, nell'intervista al Corriere Fiorentino del 23 luglio 2021, spiega il no di Montanelli con l'argomento che «li ha sempre visti un po' imbalsamati i senatori a vita».

La verità è che i rifiuti di Montanelli sono paragonabili alle mitiche dimissioni di Enrico De Nicola. Se n'è perso il conto. Nei suoi Diari a cura di Romano, alla data del 29 settembre 1971, Montanelli annota: «Bucalossi mi ha rinnovato la proposta di La Malfa di presentarmi per il Senato alle elezioni del '73». E il 4 marzo del 1972, al telefono con Ugo La Malfa, gli dice: «Perché non dai a Spadolini il collegio senatoriale che offrivi a me? È un bel nome, è più un politico che un giornalista, la pubblica opinione è tutta per lui considerandolo vittima».

È appena il caso di osservare che Romano non ha tutti i torti. Per fare politica, soprattutto ai tempi del Giornale, Montanelli non aveva bisogno di un partito che lo candidasse o di un presidente della Repubblica che lo nominasse senatore a vita. Gli bastava il giornalismo. Quanto a de Bortoli, non so se Montanelli considerasse i senatori a vita un po' imbalsamati. Ma direi di no. Altrimenti non si capirebbe perché avesse dimestichezza con Gianni Agnelli, Eugenio Montale e Giovanni Spadolini, personaggi tutt'altro che imbalsamati. A mio modo di vedere, il suo no si spiega per il suo amore esclusivo per il giornalismo, certo. Ma anche perché condivideva pienamente una famosa battuta di Leo Longanesi, secondo la quale le medaglie bisogna non meritarsele.

Più delle dietrologie, conta la viva voce del direttore del Giornale. Che il 19 maggio 1991 in una lettera inviata al presidente Cossiga motiva la sua rinuncia. Eccone il testo: «Caro Presidente, Ti prego di rinunziare a questo proposito per non mettere me nella spiacevole condizione di un rifiuto, che potrebbe apparire come un segno di spregio e di tracotanza. Niente di più lontano dal mio animo. Io mi sentirei profondamente onorato di venire accolto in una élite come quella dei Senatori a vita. Purtroppo, il modello di giornalista assolutamente indipendente, anzi estraneo al Palazzo, che per sessant'anni ho perseguito e spero realizzato, mi vieta di accettare la lusinghiera offerta. Perdonami, caro Presidente. E fammi perdonare dai miei mancati colleghi, fra i quali avrei preso posto con entusiasmo, ed a cui va tutto il mio rispetto, condito di rimpianto».

Il 16 aprile 1994 Spadolini rimprovererà l'amico Montanelli per non aver accettato la nomina a senatore a vita. E, dal suo punto di vista, non a torto. Perché in tal caso lo storico fiorentino sarebbe stato rieletto alla presidenza del Senato al terzo scrutinio nella seduta per l'appunto del 16 aprile 1994. Quando sia lui sia Scognamiglio Pasini ottennero lo stesso numero di voti: 162. Mentre al quarto scrutinio al danno si aggiunse la beffa. Difatti nel corso dello scrutinio sembrava che Spadolini dovesse prevalere. E solo a conti fatti e rifatti Spadolini riporterà 161 voti: uno in meno dell'altro candidato.

Montanelli si giustificherà in questi termini: «Io parlo e scrivo contro il Palazzo da mezzo secolo, anzi di più. Se avessi accettato, chiunque avrebbe potuto rinfacciarmelo: ma come, proprio lei, e invece niente. Resto insomma per conto mio. Un giornalista e basta, che guarda, racconta, e resta indipendente. Vorrei che mi fossero riconosciute poche cose. Una è questa. L'altra è che ho sempre tenuto a debita distanza i politici e i privilegi della politica». E in un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano dieci anni dopo, Montanelli spiegherà: «Non è stato un gesto di esibizionismo, ma un modo per dire quello che penso: il giornalista deve tenere il potere a una certa distanza».

A dar retta ai giornali, Cossiga avrebbe pensato anche a Nilde Iotti, che però pure lei disse di no forse sospettando un promoveatur ut amoveatur. Era il numero uno di Montecitorio e avrebbe perso la cadrega alla quale era affezionata, essendo stata eletta per la prima volta il 20 giugno 1979. Ora, può ben darsi che il Presidente democristiano, marzolino com'era all'occorrenza, volesse giocarle un tiro mancino. Fatto sta che la Iotti rimase in carica fino all'elezione di Oscar Luigi Scalfaro, avvenuta il 22 aprile 1992.

Come che sia, valga la testimonianza di Giorgio Frasca Polara, suo portavoce: «Fu lei, ad un anno appena dalla conclusione del suo terzo (e probabilmente ultimo) mandato di presidente a rifiutare la nomina a senatrice a vita, giugno '91: Qui scrisse sono stata chiamata dalla ripetuta fiducia dei

miei colleghi e qui resto. Un rifiuto non polemico né ispirato da orgoglio personale la nomina avrebbe potuto siglare una vita straordinaria , ma dettato da coerente rispetto per il Parlamento. Lo considero ancor oggi uno degli atti più forti, e sicuramente il più fiero, compiuto da Nilde. Appena circolò l'indiscrezione della imminente nomina, Iotti consultò i più stretti collaboratori, ma in realtà aveva già deciso, e così in fretta che non avemmo neppure il tempo di fotocopiare e conservare in archivio il biglietto manoscritto subito spedito per motociclista al Quirinale. Non ci fu replica. Ma soprattutto non ci fu notizia».

Poi c'è chi si mette nella buca del suggeritore e propone al capo dello Stato la nomina a senatore a vita di questo o quel personaggio. Così, dopo il successo riportato alle elezioni politiche del 2013, il leader pentastellato Beppe Grillo si domanda perché mai Napolitano non abbia pensato a Dario Fo. Dopo aver manifestato il massimo rispetto nei confronti dei quattro senatori a vita nominati da Napolitano, Grillo afferma: «Dario avrebbe rifiutato, va bene, ma il gesto andava fatto. Se non lui, uno dei due Nobel italiani in vita, chi altri? Questo è uno sgarbo istituzionale».

A conferma che il rigore logico non è il suo forte, Grillo così conclude: «Sono contrario alla nomina di senatori a vita con diritto di voto che alterano gli equilibri della democrazia popolare. Un'usanza medioevale e antidemocratica. Si possono magnificare con titoli roboanti, tipo Gran Baronetto del Quirinale o Immenso Cavaliere di Palazzo». Grillo notoriamente non è un costituzionalista provetto come Cossiga. Ma, come si dirà tra poco, non la pensa diversamente da Cossiga per quanto concerne il diritto di (non) voto ai senatori a vita. Anche al fine di riequilibrare nomine di senatori a vita orientati a sinistra, nel corso degli anni sono circolati i nomi di Giorgio Albertazzi, Gianni Letta e Marcello Veneziani.

Per quanto è dato sapere, oltre alla rinuncia del maestro Toscanini immediatamente successiva alla sua nomina a senatore a vita, hanno rinunciato a una nomina che gli era stata offerta dal presidente Cossiga sia Montanelli sia Nilde Iotti, per quest'ultima con la riserva di cui poco sopra. Alle predette rinunce vanno aggiunte le dimissioni presentate dal senatore di diritto e a vita Cossiga il 1° giugno 2002 e il 27 novembre 2006. Ora, è vero che i senatori di diritto e a vita come per l'appunto è il caso del senatore Cossiga esulano da questa nostra ricerca.

Ma le questioni che sono state poste riguardano in definitiva anche le eventuali dimissioni dei senatori a vita di nomina presidenziale.

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