Vorrei proporre una considerazione inattuale in margine al ddl Zan. Non intendo, qui, parlarne male, e nemmeno bene. Sono parole in margine, appunto, perché credo che si debba prestare qualche attenzione ai margini delle cose, dato che i margini spesso hanno molte storie interessanti da raccontarci.
Parto dall'art. 4 del ddl, che dice testualmente: «Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».
In queste parole c'è qualcosa che non persuade. Perché c'è bisogno di un art. 4 che tuteli la libertà di non essere d'accordo, dato che questa libertà - che non è un'elargizione dello Stato ma una condizione propria di ciascun essere umano - è già tutelata dalla nostra Costituzione? A meno che il concetto stesso di «legge», da parte degli estensori del ddl, non si associ a un'idea di previsione, di prescrizione e, in ultima analisi, di costrizione. Tale da esigere una garanzia previa di moderazione.
Come dire: oggi c'è una legge che tutela la mia libertà, domani potrebbe essercene una che non la tutela. Costituzione sotto attacco, dunque?
I margini, insomma, parlano, e dicono molte cose. C'è un'ansia prescrittiva molto evidente, che secondo me ha radici in un modo di pensare che forse, all'origine, sosteneva valori opposti a quelli sostenuti oggi, ma che è, al fondo, la stessa ansia. Io la chiamo «ansia di nominazione», il bisogno di appiccicare un nome a tutto.
Parlavo tempo fa con un eccellente psicologo che si occupa soprattutto di giovani nell'età evolutiva, adolescenti e preadolescenti: i quali (come sanno tutti gli insegnanti di scuola e i genitori più attenti alla vita dei loro figli) presentano spesso problematiche di comportamento che richiedono il supporto psicologico. Questo psicologo mi diceva che molti ragazzini, sui dodici-tredici anni, andavano da lui a dirgli di avere scoperto di essere gay.
Alla richiesta di chiarimento davano risposte-tipo, ad esempio che in piscina, sotto la doccia con i compagni, si sentivano attratti dai loro corpi nudi ed eccitati alla vista dai loro genitali. Ora, si sa che quasi ogni essere umano attraversa questa fase, e non per questo - credo che tutti possano concordare - si debba concludere con una definizione di omosessualità. Se succede è perché queste parole, nelle conversazioni tra ragazzi, circolano oggi più di un tempo: il che è un bene ma solo se aiuta a far chiarezza, mentre non è affatto un bene se genera confusione.
All'ingenuo coming out del ragazzo questo psicologo risponde: «Aspetta a dire gay. Per il momento dì che ti piacciono i ragazzi del tuo sesso». Gli suggeriva di aspettare a nominare la propria emozione, a liberarsi, appunto, dall'ansia di denominazione.
Nominare qui significa infatti bloccare, imprigionare qualcosa in una definizione che le impedisce di crescere, di scoprirsi altro da quel nome, da quell'etichetta. In un tempo in cui di identità (culturali, religiose, politiche) ne abbiamo fin sopra i capelli, ecco dunque l'«identità sessuale» o «di genere», un'espressione che già da sé suggerisce l'idea di uno stato definitivo, senza altre sorprese. Alla vecchia sigla «lgbt» si è aggiunta, giustamente, la «q» di queer, così come la «a» di chi definisce la propria sessualità come asessualità. Volendo fare dell'ironia a buon mercato, possiamo attenderci per il futuro, che so, la «o» di onanisti, o la «m» di missoscopofili, e così via, perché le casistiche sono molteplici e mai esauribili in un catalogo.
Il circolo è vizioso. Se si moltiplicano le identità nominali e le etichette si indebolisce il rapporto personale con tutto ciò che è altro, rapporto che è il motore di ogni sviluppo e cambiamento.
Intendiamoci, la tutela è sacrosanta. La storia ci è testimone di ogni sorta di orrori perpetrati nei confronti di chi si professava diverso rispetto al modello tradizionale e politicamente imposto, ed è giusto che venga garantito a tutti il rispetto e il diritto di vivere come gli pare, se la sua scelta - ma questo va da sé - non produce danno ad altri.
Ma il problema che interessa, qui, è diverso. Qui ci si riferisce a un esercizio del potere e di un modello culturale (che lo supporta) in cui da un lato si proclamano i diritti di tutti, dall'altro la tutela passa attraverso l'istituzionalizzazione di categorie chiuse. Si proclama l'apertura in che modo? Chiudendo. Ecco perché, saggiamente, quello psicologo suggerisce «aspetta» a chi è preso dall'ansia di definirsi.
«La meccanica del potere - scriveva Michel Foucault nella sua Storia della sessualità - che dà la caccia a tutto questo universo disparato non pretende di sopprimerlo (...): essa lo fa entrare nei corpi, insinuarsi dietro i comportamenti, ne fa un principio di classificazione e di intelligibilità, lo costituisce come ragion d'essere ed ordine naturale del disordine (c.s.)».
A proposito di «natura». Nessun concetto è altrettanto sfuggente e difficile da definire, tanto che sulla domanda che cos'è la natura? ebbe inizio il pensiero filosofico, nel VII secolo a. C.. Ciò nonostante, questa parola viene usata troppo e spesso in un contesto di confusione che poco aiuta la comprensione della realtà.
C'è chi ci assicura che si «nasce» gay, trans, queer e anche etero, così come c'è chi ne fa una questione essenzialmente culturale. È difficile orientarsi tra i pareri autorevoli e contraddittori, e purtroppo diventa sempre più difficile esimersi dal dire la propria.
Ma qui si apre un capitolo nuovo, di cui mi accontento di dare i titoli generali. Ho sempre guardato con sospetto diversi film di Walt Disney, dove la «natura» si presenta come lo spartiacque tra il bene e il male, dove l'animale come tale è sempre innocente e buono perché partecipa pienamente della propria natura, mentre l'uomo è cattivo perché qualcosa (l'avidità, il sospetto, il raggiro) l'ha allontanato dalla propria natura.
È una storia che viene da lontano, e che riguarda i fondamenti stessi della nostra vita civile e della giustizia, con nomi eccellenti come quello, ma non solo, di Jean-Jacques Rousseau. Resta il fatto che ogni tentativo di definire lo «stato di natura» e l'«uomo naturale» ricade nell'ambiguità e rende ambiguo tutto ciò che viene costruito su questo fondamento.
Ora, l'ambiguità esiste, è un dato, e io credo che sia giusto accettarla.
Trovo più sospetto il tentativo di contrabbandarla come chiarezza appiccicando nomi là dove sarebbe opportuno usare molta prudenza, là dove si dovrebbe lasciar crescere quello che deve crescere, senza decidere arbitrariamente quando è tempo di chiudere.
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