Quell'inversione in una notte. E l'Italia si svegliò antifascista

Nel suo ultimo libro, Vespa ripercorre le ore successive alla caduta di Mussolini: "I sostenitori si disciolsero nell'aria"

Quell'inversione in una notte. E l'Italia si svegliò antifascista

Esce oggi edito da Mondadori Rai Libri il libro di Bruno Vespa La grande tempesta. Mussolini, la guerra civile. Putin, il ricatto energetico. La Nazione di Giorgia Meloni, pagine 390, 21 Euro. Pubblichiamo un brano tratto dal primo capitolo («Da Villa Savoia al Gran Sasso»).

Proprietario dell'agenzia Stefani era Manlio Morgagni, fascista e amico di Mussolini dalla prima ora. All'inizio della storia aveva aiutato il Duce a ottenere finanziamenti dalla Francia e nel 1924 lui lo aveva ricompensato consentendogli di comprare l'agenzia di stampa che era stata fondata da Guglielmo Stefani ai tempi di Cavour. Quando Suster gli diede la notizia del cambio di governo, Morgagni gli chiese consiglio sul da farsi. L'altro gli suggerì di andarsene a dormire: si sarebbe deciso l'indomani. Dopo aver detto alla moglie di disfare i bagagli pronti per la villeggiatura, Morgagni raggiunse la camera da letto, si sdraiò e si uccise con un colpo di rivoltella alla testa. Lascio una straziante lettera d'addio a Mussolini: «Mio Duce! La mia vita era tua. Ti domando perdono se sparisco. Muoio col tuo nome sulle labbra e un'invocazione per la salvezza dell'Italia ». Morgagni fu l'unico suicida del 25 luglio. E il suo suicidio fu l'unico gesto di dignità alla caduta di un regime che, quella notte, sembro sciogliersi come se i vent'anni precedenti non fossero mai esistiti.

I primi a conoscere la notizia furono dunque i redattori della Stefani. «Non si nasconde la gioia» racconta Suster in Per una storia d'Italia del 1943. «Si dice che il Duce conduceva ormai il Paese fatalmente alla catastrofe e l'essersene liberati può forse offrire una possibilità di ripresa o di salvamento per l'Italia. Fra tutti però i più felici sono i carabinieri. Il brigadiere che li comanda sale egli stesso sulla seggiola per togliere da tutte le stanze i ritratti di Mussolini, affermando ch'egli aveva tentato d'inquinare la stessa Arma». Dopo la trasmissione dei comunicati alla radio, «subito la città e le strade sembrano percosse da un sussulto. Porte e finestre si spalancano. Un uomo in camicia da notte attraversa piazza di Spagna gridando come impazzito e agitando una bandiera tricolore. Ragazze, donne, soldati si precipitano fuori: tutti gridano, si abbracciano, corrono. Il brusio sale come una marea, lontana e minacciosa».

Suster descrive anche l'entusiasmo della Firenze letteraria, dove Manlio Cancogni andava a svegliare Vasco Pratolini e Romano Bilenchi, e persino i prudentissimi poeti Alessandro Parronchi e Mario Luzi «sentivano l'appello dell'ora», perché «era sottinteso, pareva, che in Italia tutto, fin dall'indomani, sarebbe cambiato». E pure Pietro Ingrao, 28 anni, membro del Partito comunista clandestino, nascosto a Milano fu svegliato di soprassalto, come ha ricordato nel suo libro di memorie Volevo la luna: «A Porta Venezia trovammo Milano illuminata, ebbra e in tumulto. Per la prima volta mi trovavo in una furia di popolo che urlava, sfasciava, esultava: alla caccia delle sedi fasciste, dei segnacoli del regime, a gridare lo scatenarsi della gioia e la voglia di vendicarsi». Divertente ed emblematica la testimonianza di un bambino, Dario Oitana, riportata nel maggio 2003 dal Foglio con il titolo Quel magico 26 luglio: «Dario, Dario, il Duce non c'è più, il Re l'ha mandato a spasso, ora c'è il Maresciallo Badoglio». Questa fu la sveglia di Dario il 26 luglio 1943. «Fui preso dal panico. E come se mi avessero detto: il sole non c'è più». E il saluto al Duce? E il braccino teso per il grido: «A noi!»? La zia, che fino a qualche giorno prima inneggiava ancora a Mussolini come al Salvatore della Patria, ora gli spiegava che era stato causa di ogni disastro, ma che il re e Badoglio li avrebbero salvati. «Come altri milioni di italiani feci una conversione a U, e da piccolo fascista diventai un convinto antifascista. Mi procurai un gessetto, scrissi alcune M e poi vi feci una croce sopra. Non potendo abbattere i busti, mi dovevo accontentare. Poi scrissi alcune B (Badoglio) precedute da un Viva. Mi recai nella piazza del paese, piena di uomini con baffi e cappello (era la divisa dei contadini), che si congratulavano per la notizia sorprendente ed entusiasmante. Anche loro erano diventati tutti antifascisti».

I fascisti si dissolsero nell'aria come se non fossero mai esistiti. Mentre venivano abbattuti i busti di Mussolini, milioni di mani toglievano dall'occhiello della giacca un distintivo (la «cimice») prima inseguito e poi a lungo ostentato. In quel momento erano tre gli uomini chiave del regime fascista: Carlo Scorza, segretario del partito; Enzo Galbiati, comandante della Milizia; Umberto Albini, sottosegretario al ministero dell'Interno (il ministro era Mussolini). Ad Ambrosio, che cercava Scorza, rispose il suo vice, Alessandro Tarabini: aveva avuto l'ordine di diramare fonogrammi per tranquillizzare le federazioni e li aveva firmati con il nome del segretario. Lo stesso Scorza, al generale dei carabinieri che era andato ad arrestarlo, chiese la libertà sulla parola e si disse disposto a collaborare. Il 27 luglio scrisse a Badoglio: «Dopo due giorni di silenzioso lavoro ritengo di poter considerare esaurito il compito di persuasione e disciplina tra i fascisti impostomi dalla mia coscienza, come sacro dovere di soldato, in seguito al cambiamento di governo».

Galbiati aveva a disposizione la divisione corazzata M (Mussolini), impegnata in esercitazioni a Campagnano, a pochi chilometri da Roma. Ricostituita nel maggio 1943 con nuovi reparti affiancati ai reduci dalla Russia, era stata dotata da Heinrich Himmler dei formidabili carri armati Panzer per la personale tutela del Duce. Per fortuna non si mosse, ma se avesse voluto reagire, Galbiati avrebbe potuto attaccare alcuni centri nevralgici (la sede dell'Eiar in via Asiago era presidiata soltanto da una ventina di carabinieri). E invece attese nel suo ufficio la visita del generale Quirino Armellini, suo successore, senza battere ciglio. («Io aspetto qui il mio successore» raccontò al giornalista fascista Bruno Spampanato. «Lui crederà che io lo accolga a bombe a mano e io gli offrirò queste» disse, indicando un pacchetto di caramelle che aveva già distribuito ai collaboratori presenti). Al console generale Alessandro Lusana, che comandava la divisione M e gli chiedeva ordini, rispose: «Nulla». E quando Lusana si rivolse al nuovo capo di Stato maggiore della Milizia, Armellini, si senti dire: «Continuate con le esercitazioni». Il fascio cucito sulle divise fu sostituito dalle stellette militari e la divisione M divento divisione Centauro. Senza colpo ferire.

Il terzo uomo era Albini, che aveva votato a favore dell'ordine del giorno Grandi. Subito dopo l'arresto del Duce, Castellano andò a trovarlo al Viminale accompagnato dal colonnello Luigi Marchesi, che avrebbe poi raccontato la scena a Sergio Zavoli, autore con Arrigo Petacco del libro Dal Gran Consiglio al Gran Sasso. «Si alzi in piedi e non faccia movimenti» gli ingiunse Castellano, sapendo che sotto le scrivanie dei gerarchi c'erano bottoni d'allarme attivabili con il ginocchio.

«Mussolini è stato arrestato. Lei decida subito se collaborare o non collaborare». «Sono pronto a collaborare» rispose un pallidissimo Albini, che diramò subito alle prefetture le disposizioni d'ordine pubblico dettategli da Castellano.

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