La vicenda di Monfalcone, dove la Fincantieri è stata costretta a fermare le attività a seguito del sequestro di alcune aree deciso dalla magistratura, è emblematica del modo in cui in Italia si guarda all'imprenditore. Perché in questa vicenda non abbiamo persone costrette a lavorare contro la loro volontà, attività inquinanti che compromettono l'aria o l'acqua, progetti truffaldini che ledono altri soggetti nei loro diritti. L'iniziativa dei magistrati di Gorizia, che comporterà costi altissimi per la Fincantieri, è connessa al comportamento di imprese subappaltatrici prive di taluni requisiti di legge per gestire gli scarti dei lavori. Si tratta, insomma, di irregolarità non significative e che quindi non dovrebbero giustificare un'azione tanto pesante. E, invece, in questo come in altri casi, ci si trova dinanzi a inchieste che prefigurano rilievi penali. Il che obbliga a fare due distinte considerazioni. In primo luogo, quando comportamenti come quelli tenuti a Monfalcone vengono considerati «reati» è chiaro che i responsabili si trovano a rischiare pene pesanti. Anche se il principio di proporzionalità è cruciale in ogni ordine di diritto, in troppe circostanze non vi è rapporto tra le irregolarità commesse e le condanne inflitte.
In secondo luogo la dimensione penalistica è connessa alla crescente politicizzazione della società, dal momento che il penale è parte del diritto pubblico e mira a proteggere i principi basilari della collettività organizzata. Se nel civile ci si cura delle interazioni tra privati, nel penale il focus è sullo Stato, sulla società, sugli interessi generali. E questo aiuta a comprendere come sia in atto un conflitto tra individui che provano a fare impresa, nonostante una legislazione asfissiante e spesso del tutto irrazionale, e un apparato politico-burocratico che in varie circostanze mira soprattutto a tutelare se stesso.
Quella che ne discende è una crescente criminalizzazione dell'imprenditore, che da larga parte del mondo politico e intellettuale è considerato un soggetto pericoloso e potenzialmente distruttivo dell'armonia sociale. Per giunta l'ordinamento e la prassi giudiziaria riflettono in buona parte la cultura prevalente, ed è chiaro che agli occhi dei più – basta leggere qualche romanzo o vedere alcuni film degli ultimi anni – chi fa impresa va guardato con sospetto. Per molti, se qualcuno si arricchisce è chiaro che deve esserci qualcun altro che diventa più povero e viene leso nei suoi diritti. Per i moralisti che dominano il dibattito pubblico le aziende inquinano, sfruttano, consumano risorse, minacciano il futuro di tutti.
Certamente vi sono imprenditori più corretti e altri meno: è una semplice verità che vale per ogni categoria. Al giorno d'oggi sono però in pochi a comprendere che solitamente quanti gestiscono aziende hanno successo se sanno mettersi davvero al servizio degli altri e soddisfarne le attese. Entro un ordine giuridico e in un mercato aperto e competitivo, il capitalista fa soldi se sa incontrare i gusti dei consumatori e dà loro quanto essi desiderano.
Nella mentalità prevalente, però, l'imprenditore è uno squalo senza principi morali e il mercato è una giungla feroce, così che solo l'azione di legislatori e giudici può migliorare il quadro d'assieme. Un simile accanimento contro le imprese è poi accompagnato dal trionfo del formalismo: una lettera che uccide lo spirito e ignora la realtà. Taluni giudici e burocrati si pongono dinanzi alle leggi com
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