Qui e ora

I l dibattito sulla nascita e la morte, due punti che si presuppongono a vicenda affinché ci sia vita, è stato scandito da giudizi affrettati e superficiali, da un fervore alimentato soltanto dall'emotività. Il progresso ha fornito all'uomo grandi poteri e non sono pochi quelli che si interrogano sui doveri e limiti che la medicina dovrebbe darsi quando interviene sulle fasi iniziali e finali di ogni vita. È lecito e giusto domandarsi se un bambino ottenuto grazie alle tecniche di fecondazione assistita e all'utero in affitto sia destinato a una vita serena, se è accettabile escludere la madre biologica dalla sua infanzia e crescita o nell'ambito della fattibilità ogni uomo, in un delirio di onnipotenza, può pretendere di esaudire desideri e la sua volontà a prescindere dal bene comune. L'eutanasia non è suicidio, non è un fatto personale perché coinvolge altri individui e quindi la società, che deve mettere a disposizione i suoi mezzi per garantire al soggetto un diritto di morte. Attualmente ad ogni uomo è possibile morire rinunciando a trattamenti che sono atti ad allungare la vita, la respirazione e l'alimentazione artificiale. Allo stesso tempo spetta al medico agire per alleviare sofferenza psichica e il dolore con sedazioni più o meno profonde. Una legge sul fine vita non riguarda soltanto casi di frontiera come quello del dj Fabo, di Welby o di Englaro. Coinvolgerebbe le esistenze di migliaia di malati terminali o non terminali, coscienti e incoscienti, per cui andrebbero stabiliti principi che sanciscono una indefinibile dignità di vita e di morte. Quando i progressi scientifici hanno permesso alle coppie sterili genitorialità che sembravano impossibili si è gridato al miracolo. Aiutare Fabo a liberarsi di un corpo divenuto prigione sembra un atto caritatevole su cui non nutrire dubbi ma già da qualche anno c'è chi sostiene che lo stesso aiuto debba essere fornito al depresso o all'anziano malato di Alzheimer. Rendere un bene supremo come la vita disponibile all'uomo e alla sanità non è esente da rischi molto pericolosi.

La cultura del diritto alla morte può degenerare nella cultura del dovere di morte per chi è disabile, malato di mente, anziano o demente ma che se non sentisse di essere un peso per parenti e società aspetterebbe il momento giusto per morire.

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