Roberto Scafuri
Roma Sette anni dopo, ma il numero non reca affatto segni di magia «buona». Solo una manciata di minuti dopo, quattro. Alle 3.36 di ieri mattina il tempo di Amatrice s'è fermato come alle 3.32 del 6 aprile 2009 aveva cessato di battere il cuore dell'Aquila.
Ancora un terremoto «a tradimento», così l'hanno definito, perché non lascia scampo, la gente è a letto che dorme, la prontezza di scappare non c'è, il buio pesto tutto travolge. L'energia elettrica scompare assieme alle certezze del tempo che viviamo, della tecnologia che inebria, della sicurezza che ci assilla da svegli. È un ritorno di botto nello sgomento remoto, dove il tempo ci tiene ancora tutti appesi a un filo. Le coincidenze tra i sismi di Amatrice e dell'Aquila non sono le uniche concatenazione di fatti che rendono il dolore apparentemente più stridente, ma forse più facile elaborare il lutto. Il fatto che l'imminente sagra dell'amatriciana avesse portato nell'antico borgo tanti turisti, per esempio: ventimila, pare, per una popolazione che si aggira sui tremila. La circostanza che molti di questi «abitanti temporanei» fossero bimbi lasciati alle nonne per godere l'ultimo scampolo d'estate. La disdetta di case antiche, non antisimiche come quelle di Norcia, accorgimento cui s'è provveduto dopo il terremoto del '79 (cinque vittime, mentre la scossa di ieri notte, più forte, non ha intaccato alcuna casa).
Coincidenze tragiche, ma non solo, perché la cinquantina di km tra Amatrice e L'Aquila rappresentano il «cuore sismico» di un Appennino che i sismologi danno in situazione di progressivo «stiramento», conseguenza ultima dei movimenti di placca terrestre che portano l'Africa a «spingerci» all'insù, in senso anti-orario. Fenomeni dunque non racchiudibili nello spazio di qualche decennio. Così che Amatrice e L'Aquila si ritrovano tristemente «gemellate» da destini sismologici indissolubili. Maledizione che prende il via, almeno secondo la memoria storica moderna, con il primo grande terremoto del 7 ottobre 1639 (anch'esso «gemello», in intensità, a quello di ieri) che distrusse Amatrice e Accumoli, «con la morte compassionevole di molte persone, la perdita di bestiami d'ogni sorte», come racconta una relazione dell'epoca stilata da tal Carlo Tiberij Romano. «... Mentre fuori dal pensiero d'ogni sinistro avvenimento qualcuno nella città della Matrice e ne' luoghi contigui stava riposando, fu sentito alle sette ore di notte in circa un improvviso scuotere di case - scrive il Tiberji Romano -... Molti furono sepolti sotto le rovine, il relatore comunque ne cita ufficialmente 35... La scossa più forte durò un quarto d'ora». Una settimana dopo, altra scossa rovinosa, e sempre alla stessa ora che colpisce gli abitanti nel sonno. Altri eventi tormentarono l'Abruzzo Ultra di Amatrice e Accumoli per tutto il finire del secolo: nell'aprile 1646, nel giugno 1672. Ancora un lungo sciame sismico portò il 2 febbraio 1703 al terremoto dell'Aquila, per il quale l'inviato del vicerè di Napoli, Marchese della Rocca, resocontò che «la città dell'Aquila fu, non è». Scossa nel giorno della Candelora, festività della Purificazione di Maria, epicentro ancora dalle parti di Amatrice.
A tradimento colpì poco prima di mezzodì, quando la maggior parte degli abitanti era in chiesa. Magnitudo 6,7, fece 2500 morti all'Aquila e seimila in tutto. Ancora sulla stessa ferita, il cuore d'Italia aveva di nuovo cessato di battere.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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