Il racconto dei due superstiti: «Così ci siamo liberati da soli»

Rimpatriati ieri all'alba dalla Libia gli italiani sopravvissuti: «Siamo stati sempre coi nostri colleghi fino all'ultimo giorno»

Francesca AngeliRoma Picchiati con il calcio del fucile. Lasciati spesso senza cibo. Ostaggi di un gruppo islamista non direttamente legato ai terroristi dell'Isis ma più probabilmente alla criminalità comune. Ignari fino al loro arrivo in Italia della tragica fine degli altri due tecnici della Bonatti, Salvatore Failla e Fausto Piano. Con loro avevano passato tutti i lunghissimi giorni della prigionia dandosi forza a vicenda.«Ci siamo liberati da soli», svelano Gino Pollicardo e Filippo Calcagno che raccontano la loro verità al pm Sergio Colaiocco nella caserma di Colle Salario a Roma, dopo essere atterrati ieri mattina alle 5 a Ciampino. In questa stanza a migliaia di chilometri da Sabrata, nell'area in cui si trovavano prigionieri non distante da Tripoli, attraverso la ricostruzione fornita agli inquirenti, comincia a delinearsi il quadro del rapimento anche se i punti oscuri sono tanti. Si parte dalle certezze: quattro i tecnici italiani rapiti sette mesi fa. Due, Pollicardo e Calcagno, sono rientrati vivi ieri mattina ed hanno potuto abbracciare i figli, le mogli, i nipoti. Due, Failla e Piano, sono stati uccisi in un conflitto a fuoco il 3 marzo a Sabrata. Ora i sopravvissuti rivelano di essere stati sempre insieme fino a quel maledetto giorno quando Failla e Piano sono stati portati via. Le due vittime si trovavano a bordo di un pick up con due dei rapitori e una donna che sarebbe sempre stata presente lungo tutto il periodo di prigionia. Nel momento in cui il pick up è stato intercettato dalla milizia dentro ci sarebbe stato anche un bambino, coinvolto nel conflitto a fuoco nel quale sono stati uccisi i due italiani. Nel frattempo, mentre i loro amici venivano uccisi, Pollicardo e Calcagno man mano che passavano le ore si sono resi conto di essere rimasti soli nella loro prigione. Dopo un paio di giorni sospesi durante i quali nessuno ha portato loro acqua o cibo hanno deciso di agire e di liberarsi da soli. Venerdì scorso hanno sfondato la porta della loro prigione e si sono liberati.L'audizione dei due tecnici è durata più di sei ore ed ha chiarito alcuni punti chiave. Gli ostaggi sono rimasti sempre insieme e nelle mani degli stessi rapitori, non sarebbero avvenuti scambi con altri gruppi come spesso avviene in questi casi. Forse il rifugio stava per essere scoperto e dunque è stato deciso lo spostamento poi finito nel sangue. Sono emersi elementi importanti che però lasciano aperti molti interrogativi come quelli inerenti al riscatto, e soprattutto non possono assolutamente essere ritenuti sufficienti a placare la richiesta di verità e giustizia che arriva dalle famiglie delle due vittime. Per il momento le salme restano in Libia. Il governo di Tripoli ha chiaramente lasciato intendere che spetta soltanto alle autorità locali decidere come e quando restituire i due corpi all'Italia. Non solo. In un luogo non precisato anche se probabilmente ci si trova sempre nell'area di Sabrata sarebbe stata eseguita l'autopsia sul corpo di Salvatore Failla alla quale la vedova, Rosalba Castro, si era strenuamente opposta. «Ci chiediamo in base a quel diritto internazionale sia stata eseguita - attacca il legale dei Failla, Francesco Caroleo Grimaldi -. Lo riteniamo un oltraggio anche perché è chiaro che la genuinità dei rilievi autoptici che poi verranno effettuati in Italia è stata inquinata dall'autopsia fatta in Libia».

Dura la reazione della vedova di Failla al messaggio di cordoglio rivolto ai familiari delle vittime dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. «Questo messaggio non ha valore - commenta con amarezza la donna -. Lo Stato ha fallito perché mi dovevano riportare mio marito vivo».

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